istituto a custodia attenuata per detenute madri

UN ASILO CON LE SBARRE - A MILANO, L’UNICA STRUTTURA IN ITALIA PER OSPITARE DETENUTE CON I BAMBINI - NON SEMBRA NEANCHE UN CARCERE: GLI AGENTI SONO IN BORGHESE, CI SONO STANZE COLORATE E GIOCATTOLI OVUNQUE - OGGI CI SONO OTTO DONNE, TUTTE STRANIERE - ECCO COME FUNZIONA

Mauro Pianta per la Stampa

 

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Non ci sono celle, solo stanze colorate. Gli agenti non indossano divise, vestono in borghese. Passeggiando nel piccolo cortile interno, poi, vi potrà capitare di inciampare in un triciclo o in qualche altro giocattolo da giardino. Ma basta alzare lo sguardo per imbattersi nelle sbarre alle finestre, nella porte blindate e nelle telecamere che sorvegliano l’alto muro di recinzione.

 

Perché questo elegante stabile del primo Novecento in via Melloni 53, in un quartiere della Milano-bene, è sì una struttura detentiva più leggera istituita per le detenute madri, ma resta pur sempre un carcere. Un ICAM - la sigla sta appunto per Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri - unico in Italia: mentre gli altri (a Venezia e Torino) si trovano all’interno dei rispettivi penitenziari, la struttura milanese lanciata in via sperimentale nel 2006 è posta ben lontano da San Vittore, da cui comunque dipende. 

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L’ICAM di via Melloni è nato proprio per le madri incarcerate che, non avendo una dimora fissa e non potendo dunque beneficiare di misure alternative come gli arresti domiciliari, possono vivere qui senza essere separate dai figli. Per legge si tratta di minori in età compresa fra zero e sei anni. Se il bambino è più grande e la mamma deve ancora scontare la pena, il minore verrà assegnato a una famiglia affidataria (ma con l’obbligo di mantenere rapporti con la genitrice detenuta).

 

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Oggi l’ICAM milanese ospita otto mamme, tutte straniere, con i loro dieci bambini in età 0-5 anni. A portare i piccoli al nido, alla scuola materna, alle Asl per le vaccinazioni, o magari al parco o alle feste a casa dei compagnetti, ci pensano le educatrici e i volontari del Telefono Azzurro. «Perché il minore – spiega la coordinatrice dell’ICAM, Marianna Grimaldi – non è detenuto e dunque è giusto che le istituzioni si facciano carico della sua tutela da tutti i punti di vista». Che, poi, inesorabilmente un po’ prigionieri lo sono anche i bambini. 

 

«Nel week end – prosegue Grimaldi –potrebbero uscire con i padri o con i nonni: purtroppo, nella maggior parte dei casi, restano qui perché le ragazze sono sole, abbandonate dalle proprie famiglie». Eppure le ragazze sanno, in fondo, di essere privilegiate e di sperimentare una situazione migliore di chi è costretto a vivere nei “nidi” dei reparti carcerari femminili.

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Lo hanno anche scritto al presidente Mattarella che ha visitato la struttura nell’aprile scorso: «Speriamo che altre mamme detenute possano avere questa opportunità. Viviamo il tempo che ci manca per chiudere il nostro debito con la società e ci impegniamo perché il futuro riservi ai nostri figli maggiori speranze». Pure papa Francesco le ha incontrate durante la sua recente visita milanese. Una di loro gli ha detto: «Siamo peccatori come tutti, ma proviamo sentimenti come ogni essere umano». 

 

Vesna, 30 anni e un bimbo di tre, non è cattolica ma è rimasta molto colpita dall’incontro con il Pontefice: «Nella mia vita non mi sarei mai aspettata di incontrare di persona il papa e soprattutto di farlo in un carcere. Ho un altro bambino di otto anni. A gennaio esco, cercherò di stare in famiglia. Qui ho imparato a cucinare, mi piace tanto preparare i dolci e una volta fuori vorrei provare a fare la pasticciera».

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Già, perché le ragazze oltre a lavorare per la gestione della struttura (pulizia spazi comuni, cucina, lavaggio e stiraggio di tovaglie, tende, lenzuola) e ad occuparsi dei bambini, partecipano a laboratori (sartoria, corsi di italiano, teatro) e ad una scuola di cucina con un vero chef.

 

Le difficoltà maggiori? Osserva ancora la coordinatrice Grimaldi: «La fatica più grande è di tipo educativo: far capire loro che se si trovano qui non è perché noi, inteso come sistema di detenzione, siamo cattivi ma perché attraverso un certo comportamento hanno messo a repentaglio la propria vita e quella dei figli. La sfida più impegnativa e anche più stimolante è proprio quella di aiutarle a crescere nella consapevolezza e nella responsabilità di essere donne e madri».

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Di positivo c’è anche l’accoglienza da parte del territorio. «Non ci siamo mai nascosti – dice Grimaldi - eppure il quartiere ci ha sempre trattato bene: la parrocchia, le scuole, i negozianti. Tutti vogliono bene a queste ragazze e ai loro bambini». Ecco, i bambini. Che ne sarà di loro? «Vivono una condizione difficile, ma meglio qui che nel “nido” all’interno di un carcere. Non dimentichiamo che sono obbligati a frequentare le scuole: e questa è già una garanzia per il loro futuro».

 

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I più grandicelli sanno perché sono qui con le loro mamme? «Abbiamo scelto di non mentire – risponde una delle educatrici, Stephanie Depretto – anche perché prima o poi arriva inevitabile la domanda alla madre. “Ma perché non mi vieni a prendere tu a scuola?”. Trascorriamo molto tempo insieme a loro e alle madri. Uno di momenti più belli è quando li portiamo fuori per fare un giro al parco, al museo o semplicemente a prendere un gelato. Per questi bambini è tutto nuovo. Guardano con occhi sgranati il cielo, i mezzi pubblici, le auto, i cani, i piccioni, i palazzi. Praticamente urlano tutto il tempo la loro meraviglia».

 

Maria Grazia Ghisetti è una delle tante volontarie del Telefono Azzurro coinvolte nell’esperienza dell’ICAM. «Cerchiamo semplicemente di fare compagnia alle mamme, di giocare con i bambini, e di trasmettere un po’ di serena normalità. In realtà sono loro, quando ci vedono e ci corrono incontro, a regalarci una grande gioia».

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