BIG DATA, BIG BROTHER: LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA DEI DATI PERSONALI SPIATTELLATI IN RETE

Enrico Franceschini per "La Repubblica"

Facebook sa cosa ci piace, Google sa cosa cerchiamo, Apple sa cosa compriamo, Amazon sa cosa leggiamo, Microsoft sa dove viviamo. Mescolate tutte queste informazioni. Aggiungeteci quelle ricavate dalle telefonate che facciamo, dalle email che scambiamo.

Ma anche dai siti web che visitiamo, dai supermercati, ristoranti, cinematografi, negozi, linee aeree e ferroviarie che paghiamo con la carta di credito, e comincerete a capire cosa sta succedendo.

È un fenomeno che si chiama Big Data e sta impossessandosi delle nostre vite. A scopo benefico, forse. Con obiettivi maligni o perlomeno molto interessati, non si può escludere. Una cosa è certa: il Big Brother orwelliano, il Grande Fratello che tutto vedeva dei suoi sudditi in 1984, geniale romanzo fantascientifico dello scrittore inglese (scritto peraltro nel 1948), al confronto era un dilettante.

Alla lettera, Big Data significa "grandi dati" ("data" è il plurale del latino "datum"). Non è un'invenzione di ieri: sono anni che se ne parla, nella comunità scientifica. Ma è adesso che sta venendo allo scoperto.

Ne annuncia l'arrivo, quasi fosse un messia, un libro appena pubblicato in Inghilterra, Big Data, a revolution that will transform how we live, work and think ("Big Data, una rivoluzione che trasformerà il modo in cui viviamo, lavoriamo e pensiamo"), autori Kenneth Cukier, caporedattore del settore "dati" al settimanale Economist, e Viktor Mayer-Schönberger, docente di "internet governance" (sapevate che esiste una materia simile?) all'Università di Oxford.

Una ricerca della società di analisi finanziarie McKinsey, Big Data, the next frontier for innovation ("Big Data, la prossima frontiera dell'innovazione"), aveva già segnalato il tema agli specialisti. E in questi giorni il bimestrale americano Foreign Affairs, la più sofisticata rivista di affari internazionali del pianeta, e lo storico settimanale laburista britannico New Statesman, mettono entrambi Big Data in copertina.

Big Data vuol dire grande aggregazione di dati, nuvola di informazioni così ampia che le sue dimensioni e la sua complessità richiedono strumenti più avanzati per analizzarla. Strumenti che si chiamano innanzi tutto algoritmi, le formule matematiche che ormai fanno viaggiare il pianeta, dai mercati finanziari all'economia reale, e poi processori sempre più potenti, memorie più profonde, programmi di software più abili.

Da dove arrivano tutti questi dati? Dal web, questo è ovvio, o meglio da tutta l'informazione digitale che attraversa le nostre esistenze. Se nel terzo secolo avanti Cristo, la somma della conoscenza umana era contenuta nella famosa biblioteca di Alessandria, oggi disponiamo di abbastanza dati da fornire 320 volte l'ammontare di informazioni della biblioteca d'Alessandria a ogni abitante della terra.

Se mettessimo tutti questi dati su dei Cd, se ne formerebbero cinque pile alte fino alla luna. Basti pensare che ancora nel 2000 solo un quarto delle informazioni disponibili al mondo erano digitalizzate, mentre oggi non sono digitalizzati solo il 2 per cento dei dati mondiali e la loro mole raddoppia ogni tre anni.

Ogni giorno vengono creati 2,5 trilioni di dati digitali. Cosa ne facciamo? Noi, niente. Ma governi e aziende private li incrociano e ne ricavano di tutto. Google, esaminando un miliardo di richieste sul suo motore di ricerca, è in grado di prevedere dove avverrà la prossima epidemia di influenza. L'Europa potrebbe risparmiare 100 miliardi di euro l'anno sfruttando più efficientemente le informazioni in suo possesso.

E i partiti possono scoprire per quale candidato sarebbero più orientate a votare, per esempio, le donne single al di sotto dei 30 anni in un determinato paese. Big Data, spiegano Cukier e Mayer-Schönberger nel loro libro, capovolge le regole della vecchia analisi scientifica: usa tutte le informazioni invece che un campione; usa dati confusi invece che selezionati; non cerca le cause bensì le correlazioni, i patterns, il ripetersi di elementi significativi.

È una rivoluzione che può fare del bene all'umanità, avvertono gli autori, ma occorre anche riconoscerne i limiti, tenendo conto dell'imprevedibilità, del rischio, dell'intuizione, se non vogliamo finire come in Minority report, il film futuristico del 2002 in cui Tom Cruise era un agente del Pre-Crime, un'unità di polizia in grado di prevedere i crimini prima che vengano commessi.

Dopotutto, se Henry Ford avesse potuto disporre di Big Data per sapere che cosa voleva la gente un secolo fa, probabilmente la risposta sarebbe stata "un cavallo più veloce", non un'automobile. In groppa a Big Data, insomma, ci dev'essere l'Homo Sapiens; non il contrario.

 

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