CINEMISMO - DELIRIO E DISGUSTO A VENEZIA PER LA TROMBENEGGIANTE EMMA DANTE (“IL MIO SUD PARLA DI UNO STATO DELL’ESSERE”), APPLAUDITA COME UN GENIO

Malcom Pagani per Il Fatto quotidiano

Non vinciamo un Leone d'oro dal 1998, ma la cresta è sempre altissima. "Capolavoro, capolavoro". Apologie, squittii, paragoni azzardati e un'onda che si infrange sugli scogli semantici della conferenza stampa. Dietro la cattedra, la regista ha il severo cipiglio dell'autrice e il giornalista è un punto piccolo, una voce sullo sfondo, il film nel film. Prova a volare: "Posso farle una piccola domanda provocatoria?". Perde quota in coincidenza di uno sguardo che somiglia a un vaffanculo: "Volevo dirle che il film è bellissimo, stupendo e mi è piaciuto tantissimo".

Tenta di non precipitare nell'effetto notte: "Perché presentare sempre il sud in questa veste? Io sono di una città del sud che preferisco non nominare per correttezza (sic), non crede che anche al nord capitino cose del genere?".

L'esordiente Emma Dante, anni di apprezzatissimo teatro in giro per l'Europa alle spalle che non definiremo in alcun modo perché la volgare semplificazione che "limita gli orizzonti interpretativi" la disgusta, lo osserva con lo stesso fastidio riservato ai mosconi. Emma è al debutto veneziano alla regia, in concorso, con una storia in cui Palermo è più buia della caverna di Platone, l'eredità di Ciprì e Maresco è un vento che soffia nelle terre del plagio e due donne inseguono identità ed emancipazione.

Dopo i timidi applausi alla proiezione stampa del mattino per Via Castellana Bandiera, lotta di classe per una precedenza stradale siciliana a due passi dalla miseria, testa l'aria. Cerca una battuta: "Ma guardi, io volevo ambientarlo a Bergamo". Sorrisi complici. Brusio di approvazione. Allora, spietata, annusata la parata, decide di affondare. Parla di radici:
"Palermo è la mia lingua, la mia storia, la mia patria".

Abbonda di metafora: "Il sud è una torretta di osservazione sul mondo". Esagera: "Il mio sud parla di uno stato dell'essere". E discutendo del "metodo", il "suo", a cui Stanislavskij - ça va sans dire - lucida le scarpe (attori costretti a un percorso di "conoscenza" tra dolori, secchiate d'acqua, urla, periodi di clausura) in un giulebbe di mani agitate, capelli martoriati e compulsivi "cioè", lascia sul terreno involontaria, preziosa, ispirazione per un nuovo personaggio dei fratelli Guzzanti: "Il cinema è diverso dal teatro, cioè, questa cosa bisogna accettarla...è diverso, cioè il mezzo è diverso, ma il metodo è uguale, io credo molto nel metodo, credo più nel metodo che nello stile...".

Le chiedono se ci riproverà e lei, prima di concedersi, riannoda i fili del discorso: "Il cinema deve avere un metodo, perché il metodo è quella cosa che ti fa riflettere su quello che stai facendo, siccome noi abbiamo trovato il metodo e soprattutto abbiamo trovato una squadra e siccome questa squadra c'è, se c'è un'altra storia, un'altra necessità certo che lo faccio".

Parla della sua opera seconda , "la necessità" che inseguita dalle incoronazioni estere colte ai bordi del Palazzo del cinema (il mitologico Michel Ciment di Positif, 83 anni, una vita a studiare Kazan e Kubrick gridava "superb") non tarderà ad arrivare insieme forse a un premio. L'ultimo a ricevere il massimo onore fu Gianni Amelio e prima e dopo, tra plateali ingiustizie, equivochi sciovinismi e meritati fischi dal loggione sulla presunzione di certi tinelli spacciati come fotografie dell'esistente e sui coraggiosi avventurieri in biancorossoverde approdati in laguna, è piovuto di tutto.

Il film più atteso dell'edizione '97, il collettivo "I vesuviani", sepolto dai lazzi. Michele Placido vilipeso per "Ovunque sei" e pronto alla pugna. Cristina Comencini furibonda per le risate in sala: "Incivili". Marco Bellocchio (per 2 volte) colpevolmente ignorato. Tornatore sbertucciato per Baarìa. E giù dietrologie, fughe da fermo, provincialismi, minacce marchiate Rai: "Non porteremo più un nostro titolo al Lido" e confessioni a posteriori dei giurati come Verdone: "Non lo farò mai più, ricevetti 300 telefonate in 6 giorni, dovetti cambiare numero di telefono".

Anche se Bertolucci sarà risparmiato dai molestatori, con il film della Dante perfetto per un Festival, c'è una concreta speranza di esultare. Conta lo sguardo altrui. Il nostro autoscatto anche se vestito da favola. Siamo brutti e lo dobbiamo accettare. Siamo sporchi. E non c'è doccia che ci mondi. Siamo stupidi, egoisti, gretti, beceri e naturalmente cattivi. Viviamo in un tugurio sudando nei piatti di plastica, circondati da mostri, in caverne con la parabola in terrazza all'ombra della montagna che domina Palermo.

Potremmo riderne, ma non volendo rischiare accuse di grottesca complicità, preferiamo piangerne. Un giorno però, suggerisce Emma Dante, usciremo a riveder le stelle e anche i sentieri stretti dove regna l'incomprensione, si lotta tra primitivi per la sopravvivenza e gli amori, se a baciarsi "sono due froce" semplicemente non esistono , trasmuteranno dalla barbarie in riscatto sociale.

Lo promette il pedagogico piano sequenza finale, la "catarsi" pretesa dalla regista. Ma avverte, presentando uno dei pochi personaggi positivi, che non c'è speranza senza penitenza e dall'inesauribile zaino del simbolo e dell'allegoria, le avanza ancora una metaforina: "Quel ragazzo è una fiammella, c'è molto lavoro da fare per alimentare il fuoco".

A Venezia ci si prende sul serio. Forse, ipotizzava Mino Monicelli, è l'aria: "Già marcia d'autunno e se non soffia lo scirocco, tira il borin". Forse l'atmosfera: "A Cannes c'è il bal-musette, le donne nude. Qui c'è un solo night, si esibisce un acrobata in bicicletta e organizziamo tavole rotonde dove tipi zazzeruti discutono di estetica cinematografica, ma non sanno che il cinema l'ha inventato Charlot con le torte in faccia". Emma Dante ci ha riflettuto, sedotta, per un quarto d'ora. Poi all'attimo fuggente ha preferito l'ultima lezione: "L'Italia ha problemi seri". Compresi nel ruolo, commossi, annuivano i più.

 

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