ALTRO CHE CINGUETTII - VOLANO GLI STRACCI TRA LE BANCHE CHE GESTISCONO LA QUOTAZIONE DI TWITTER PER DIVEDERSI LA TORTA DELLE COMMISSIONI

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera"

A ben vedere potremmo già ribattezzarla la gallina dalle uova d'oro. Per le commissioni da elargire a banche d'affari ingolosite dalla prossima quotazione di Twitter. E naturalmente per i ritorni agli azionisti, come Jack Dorsey e Ev Williams - tra i fondatori - che siedono nel consiglio d'amministrazione e sono due dei soci più grandi.

Dopo il prospetto di collocamento depositato presso la Sec (l'authority di vigilanza Usa dei mercati) e le informazioni centellinate al minimo grazie a una legge che permette alle imprese con meno di un miliardo di fatturato di tenere top secret i documenti fino a quando non è stata ultimata l'offerta agli investitori, cominciano ad uscire le cifre sulle fee da garantire alle banche.

Così c'è chi storce il naso - e il Wall Street Journal ieri non ha mancato di rilevarlo - sulla spartizione dei proventi per l'Ipo (initial public offering) del popolare sito di microblogging con i suoi 250 milioni di utenti attivi. Il caso è questo: il colosso Goldman Sachs - scrive il quotidiano Usa - potrebbe incassare fino a 20 milioni di dollari per aver lavorato al debutto di Twitter in Borsa.

In termini relativi si aggiudicherebbe il 38,5% della torta totale delle fee e così guadagnerebbe più del doppio degli altri istituti di credito che hanno curato l'Ipo. A Morgan Stanley dovrebbe andare il 18% delle commissioni, a Jp Morgan Chase il 15% e Bank of America Merrill Lynch e a Deutsche Bank l'8% ciascuna.

Ipotesi, per ora, perché i numeri sono appesi a due variabili fondamentali: il numero di azioni che verrà piazzato sul mercato (e quei 20 milioni eventualmente corrisposti a Goldman Sachs verranno versati solo se Twitter rastrellerà il massimo possibile: 1,6 miliardi). E il prezzo di collocamento, che verrà fissato il prossimo 6 novembre e individuato in una forchetta compresa tra i 17 e i 20 dollari per azioni.

Eppure questa sproporzione tra le merchant bank sembra a suo modo irrituale nel panorama delle recenti quotazioni a dieci cifre. Ad esempio General Motors e Visa hanno versato ai loro sottoscrittori commissioni perfettamente uguali, senza far figli e figliastri.

Mentre sulla falsariga della società guidata da Dick Costolo si è mossa recentemente solo Facebook che all'atto della quotazione - avvenuta nel maggio 2012 con contestuale blackout del Nasdaq Omx, che gestisce il listino tecnologico di Wall Street e relativa confusione sull'andamento del prezzo del titolo nei primi momenti di scambi - pagò alle banche l'1,1% dei 16 miliardi di dollari raccolti e premiò Morgan Stanley con il 38,5% delle spese di intermediazione.

Così l'ipotesi sussurrata a mezza bocca è che possa ripetersi il flop dell'ipo del sito fondato da Mark Zuckerberg. Illazioni o verità troppo presto per saperlo. Nell'attesa - per smentire le Cassandre -Mike Gupta, il direttore finanziario di Twitter, ha rivendicato il mantenimento della redditività negli ultimi sei trimestri, peccato che il metro contabile usato dai vertici del social network si basi sull'ebitda adjusted e venga ritenuto da alcuni osservatori un parametro fuorviante per comprendere appieno la capacità di fare profitti di una società.

Traducendo, nei numeri presentati agli investitori per indurli a comprare il rischio Twitter ci si basa sul risultato rettificato, cioè l'utile che l'azienda ha conseguito in assenza di componenti straordinarie e non ricorrenti, come le svalutazioni di eventuali partecipazioni o la rivalutazione delle scorte di magazzino.

Un metro «shady» (ambiguo) l'ha definito Fortune, e anche Bloomberg non ha lesinato critiche. Vero o meno, quello che è certo è che il sito di microblogging conti di piazzare sul mercato circa 70 milioni di azioni e nel caso di un'ampia platea di investitori il valore della società decollerebbe a 11,1 miliardi di dollari. Con il sostegno anche di piccoli risparmiatori.

 

 

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