VENEZIA, BARBA E BARBERA! – A CHE SERVONO I FESTIVAL DEL CINEMA, OGGI? A VEDERE FILM CHE VEDREMO SOTTO CASA UNA SETTIMANA DOPO? - ANCHE PER LE MAJOR SONO VISTI COME UN RISCHIO E UNA SPESA - BASTA UN FISCHIO IN SALA O UN BLOGGER VELENOSO E SI RISCHIA IL FLOP AL BOTTEGHINO - PER EVITARE PERICOLOSE STRONCATURE, ECCO I “JUNKET”: AI GIORNALISTI SI CONCEDE DI INTERVISTARE STAR E REGISTI SU UN SET SENZA NEMMENO VEDERE IL FILM…

Alessandra Mammì per l'Espresso

Chissà cosa ha convinto Alberto Barbera a tornare al governo della Mostra del Cinema in tali tempi di burrasca. Pochi soldi, troppi festival, tanta crisi di produzione e di idee, il difficile confronto/scontro con il pirotecnico Marco Müller che ha lasciato Venezia per fargli concorrenza dal festival di Roma.

In fondo poteva riposare tranquillo sugli allori, Barbera. La mostra l'aveva già diretta dal 1998 al 2002, lasciando ottimo ricordo di sé e un coro di rimpianti durante l'opaca gestione del suo successore Moritz de Hadeln. E guidando poi il Museo Nazionale del Cinema nella sua Torino aveva tessuto interessanti joint venture tanto con il Moma che con le major di Hollywood, nonché spostato truppe di visitatori dalle mummie dell'Egizio alla lanterne magiche della Mole.

E tutti a dire: «Che bravo Barbera manager cinefilo», anzi «l'unico cinefilo che porta bene lo smoking». Tanto che nella giuria di Cannes nel 2010 ci aveva inorgoglito non solo per il suo impeccabile smoking ma anche per essere riuscito (nonostante o grazie al suo aplomb sabaudo) a spuntare un premio per Elio Germano come migliore attore ("La nostra vita" di Daniele Luchetti) addirittura ex aequo con Javier Bardem ("Biutiful" di Inarritu). E' stato il figlio", Daniele Ciprì).

C'è la crisi totale e globale, tanto robusta da mettere in ginocchio e sotto organico anche i clan della Yakuza ("Outrage Beyond" di e con il grande Kitano). E poi: la crisi ai tempi di Internet che confonde, con effetti rovinosi per tutti protagonisti, vita reale e virtuale ("Disconnect" di Henry Alex Rubin) e risponde alla crisi strappacore, madre di tutti mélo con cinici artisti di strada (Gérard Depardieu) e trovatelli sfregiati e freaks che completano il cast ("L'homme qui rit" di Jean-Pierre Améris).

Mentre la crisi maiuscola, vera, va guardata dritta negli occhi, con uno strumento chirurgico: il documentario. Ci crede il direttore Barbera al documentario. Gli fa spazio con proiezioni speciali, dimostrando che lui (a differenza di esercenti e distributori italiani che non ce li fanno mai vedere) difende quel cinema che non ha paura della realtà: che sia l'epopea di un bambino autistico negli ospedali psichiatrici della Russia di Putin ("Anton's Right Here"di Lyubov Arkus); oppure la ricerca della verità da parte di una regista figlia di un missino - Graziano Giralucci - ucciso negli anni Settanta dalle Brigate Rosse ("Sfiorando il muro" di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi); la guerra in Medio Oriente nella versione resa metaforica dal cineasta israeliano Amos Gitai e dalla musica di Mahler o il coraggio di uomini che fanno per mestiere i fotografi di guerra ("Witness" di Abdallah Omeish) o i medici in Mozambico ("Medici con l'Africa" di Carlo Mazzacurati).

Ma quel che la crisi, anzi le crisi, dallo schermo non raccontano, è la malattia del cinema, un sistema avvitato su se stesso che obbedisce a ragioni sempre più lontane dalla realtà dei film. E il j'accuse arriva proprio dal direttore, che al suo secondo mandato scopre un'industria parecchio mutata. In peggio. «Il mercato è diventato troppo prepotente. Non ci sono più produttori con cui parlare, ma una filiera di manager con difficoltà di ascolto, che vanno dal responsabile marketing ai sempre più invasivi sales agents. I festival non sono più al centro delle loro strategie.

Un tempo erano un motivo di prestigio, oggi sono visti come un rischio e una spesa. Portare un film al festival tra trasporto di troupe, truccatori, publicists è un costo enorme per grandi e medie produzioni, ormai attente anche al dollaro. E poi... Basta un fischio in sala, la stroncatura di un blogger a creare un'onda negativa che si misura in perdita economica.Tutti i festival negli ultimi anni si son visti sbattere le porte in faccia dalle grandi produzioni. "E' troppo commerciale per te", rispondono quando sono gentili. E al massimo propongono un film di animazione che rischia meno».


Dunque, per evitare critiche e stroncature, le major hanno inventato i "junket": ovvero riunire i giornalisti su un set o in uno studio senza neanche far veder loro il film, offrendo interviste a star e registi e ottenendo in cambio pagine e foto. Si risparmia, si riducono i costi delle inserzioni e non si rischia niente. Persino il "Dark Shadows" di Tim Burton dopo un'oculata campagna di promozione mondiale, ha preferito all'apertura di Cannes uscire direttamente in sala, appena quattro giorni prima del festival. E così sembra sarà per "Django Unchained" di Tarantino che punta al grande evento al Moma, pieno di celebrities, modelle, bel mondo dove nessuno oserà fischiare.

Il rischio festival non preoccupa solo le major. Anche le produzioni di casa si difendono. Vedi "La bella addormentata" di Bellocchio ispirato al caso Englaro, tema etico pronto al dibattito e a otto puntate di "Porta a porta". Così prima che si scateni il talk show generalista, che le immagini saltino da un sito all'altro, che il pubblico possa dire "mi sembra di averlo già visto", è già deciso: il film che il 5 settembre è al Lido, il 6 sarà in tutte le sale di Italia.

E allora a che serve un festival? A Cannes è difeso da uno dei più grandi mercati del mondo, a Berlino dal Generale Inverno in un febbraio scarso di concorrenti, a Venezia Müller aveva puntato sul rapporto fra le arti, sull'apertura ai generi, sulla sorpresa e l'abbondanza. Ora, in tempi di crisi, tocca a Barbera, al suo programma snellito, al suo spirito manageriale, al suo senso di realtà, alla sua scommessa di rilancio delle strutture: l'embrione di un mercato, la ristrutturazione delle sale, la comunicazione sul Web e la chiusura della voragine nata dalla brama di quel grande palazzo del cinema che non possiamo permetterci più.

Uomo di cinema agli antipodi di Müller, della sua irruenza, del caos creativo dei suoi festival e persino dei suoi eccentrici smoking con collo alla coreana: il metodo Barbera punta alla composta serietà. Si è capito fin dal giorno della presentazione alla stampa della 69ma Mostra del cinema, quando nella scenografia "fu dolce vita", tutta specchi-stucchi dell'hotel Excelsior in via Veneto, viene illustrato il programma di una mostra che si presenta più asciutta nei titoli e nelle scelte.

Diciotto film in concorso. La sezione Orizzonti che conta meno della metà di opere del 2011. La totale abolizione del patriottico "Controcampo italiano". Una retrospettiva di taglio accademico che non a caso si chiama "Venezia classici - Film restaurati" contro il trasversale global-local del Müller che spaziava dai film russi ai Bmovies italiani presentati da cult star come Tarantino e Joe Dante.

 

Ritorno all'ordine, si sussurra in platea. Al festival tradizionale, al cinema autoriale, all'Europa come produzione e coproduzione, al corto-lungo-medio metraggio secondo le misure codificate. Documentari a destra, film di fiction a sinistra.

Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa. Torniamo alle regole, alla lezione dei maestri, quelli da sussidiario e da studiare al Centro Sperimentale (sempre che sopravviva alla spending review). Ed ecco come sigillo della mostra il Leone d'Oro alla carriera a Francesco Rosi che ci allontana anni luce dagli spericolati e sorprendenti Leoni a quel genio cartoonico di Hayao Miyazaki o al mondo onirico di Tim Burton premiati dal precedente direttore.

«Sono i grandi costruttori di immagini con cui dobbiamo fare i conti», diceva Müller. «Rosi: una lezione di storia che coincide con una lezione di stile», dice Barbera. Son tornati "i contenuti". Non c'era domanda che più irritava Müller durante la presentazione stampa che la seguente: «Direttore ci può dire quale è il filo rosso, il tema comune ai film in questa mostra?». «Il nostro sguardo», più o meno rispondeva lui, acidello. «Direttore c'è un tema comune a questa mostra?».

«Sì certo: la crisi in tutte le sue declinazioni», risponde Barbera, sicuro e pacato. Il racconto torna a far premio sull'immagine. Il contenuto sulla forma. Il film sulla sperimentazione. L'Occidente sul resto del mondo. Il festival sulla mostra d'arte. Alla fine della presentazione Gian Luigi Rondi si alza in piedi e commosso applaude. E' la restaurazione, ma anche la risposta alla crisi: filmica e reale.

C'è la crisi ecologica con api che spariscono e mucche che non fanno più latte nelle campagne del Belgio, tra clima sconvolto e agricoltori stravolti ("La cinquième saison" Brosens&Woodworth). C'è la crisi socio-culturale: esemplificata nella famiglia del quartiere Zen di Palermo che investe in una macchina di lusso tutti i soldi ricevuti per la morte accidentale di un figlio (E' stato il figlio", Daniele Ciprì).

C'è la crisi totale e globale, tanto robusta da mettere in ginocchio e sotto organico anche i clan della Yakuza ("Outrage Beyond" di e con il grande Kitano). E poi: la crisi ai tempi di Internet che confonde, con effetti rovinosi per tutti protagonisti, vita reale e virtuale ("Disconnect" di Henry Alex Rubin) e risponde alla crisi strappacore, madre di tutti mélo con cinici artisti di strada (Gérard Depardieu) e trovatelli sfregiati e freaks che completano il cast ("L'homme qui rit" di Jean-Pierre Améris).

Mentre la crisi maiuscola, vera, va guardata dritta negli occhi, con uno strumento chirurgico: il documentario. Ci crede il direttore Barbera al documentario. Gli fa spazio con proiezioni speciali, dimostrando che lui (a differenza di esercenti e distributori italiani che non ce li fanno mai vedere) difende quel cinema che non ha paura della realtà: che sia l'epopea di un bambino autistico negli ospedali psichiatrici della Russia di Putin ("Anton's Right Here"di Lyubov Arkus);

oppure la ricerca della verità da parte di una regista figlia di un missino - Graziano Giralucci - ucciso negli anni Settanta dalle Brigate Rosse ("Sfiorando il muro" di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi); la guerra in Medio Oriente nella versione resa metaforica dal cineasta israeliano Amos Gitai e dalla musica di Mahler o il coraggio di uomini che fanno per mestiere i fotografi di guerra ("Witness" di Abdallah Omeish) o i medici in Mozambico ("Medici con l'Africa" di Carlo Mazzacurati).

Ma quel che la crisi, anzi le crisi, dallo schermo non raccontano, è la malattia del cinema, un sistema avvitato su se stesso che obbedisce a ragioni sempre più lontane dalla realtà dei film. E il j'accuse arriva proprio dal direttore, che al suo secondo mandato scopre un'industria parecchio mutata. In peggio. «Il mercato è diventato troppo prepotente. Non ci sono più produttori con cui parlare, ma una filiera di manager con difficoltà di ascolto, che vanno dal responsabile marketing ai sempre più invasivi sales agents. I festival non sono più al centro delle loro strategie. Un tempo erano un motivo di prestigio, oggi sono visti come un rischio e una spesa. Portare un film al festival tra trasporto di troupe, truccatori, publicists è un costo enorme per grandi e medie produzioni, ormai attente anche al dollaro. E poi... Basta un fischio in sala, la stroncatura di un blogger a creare un'onda negativa che si misura in perdita economica.Tutti i festival negli ultimi anni si son visti sbattere le porte in faccia dalle grandi produzioni. "E' troppo commerciale per te", rispondono quando sono gentili. E al massimo propongono un film di animazione che rischia meno».

Dunque, per evitare critiche e stroncature, le major hanno inventato i "junket": ovvero riunire i giornalisti su un set o in uno studio senza neanche far veder loro il film, offrendo interviste a star e registi e ottenendo in cambio pagine e foto. Si risparmia, si riducono i costi delle inserzioni e non si rischia niente. Persino il "Dark Shadows" di Tim Burton dopo un'oculata campagna di promozione mondiale, ha preferito all'apertura di Cannes uscire direttamente in sala, appena quattro giorni prima del festival. E così sembra sarà per "Django Unchained" di Tarantino che punta al grande evento al Moma, pieno di celebrities, modelle, bel mondo dove nessuno oserà fischiare.

Il rischio festival non preoccupa solo le major. Anche le produzioni di casa si difendono. Vedi "La bella addormentata" di Bellocchio ispirato al caso Englaro, tema etico pronto al dibattito e a otto puntate di "Porta a porta". Così prima che si scateni il talk show generalista, che le immagini saltino da un sito all'altro, che il pubblico possa dire "mi sembra di averlo già visto", è già deciso: il film che il 5 settembre è al Lido, il 6 sarà in tutte le sale di Italia. E allora a che serve un festival?

A Cannes è difeso da uno dei più grandi mercati del mondo, a Berlino dal Generale Inverno in un febbraio scarso di concorrenti, a Venezia Müller aveva puntato sul rapporto fra le arti, sull'apertura ai generi, sulla sorpresa e l'abbondanza. Ora, in tempi di crisi, tocca a Barbera, al suo programma snellito, al suo spirito manageriale, al suo senso di realtà, alla sua scommessa di rilancio delle strutture: l'embrione di un mercato, la ristrutturazione delle sale, la comunicazione sul Web e la chiusura della voragine nata dalla brama di quel grande palazzo del cinema che non possiamo permetterci più.

 

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