IL GRANDE MARIO - IL RITRATTO DEL BURBERO MONICELLI IN CORSA CON UN BIO-PIC A CANNES - “NON MANGIARE CHE MI VIENI SU CON UN CULO CHE FA PROVINCIA” - “A ROSSELLINI LO DICEVAMO SEMPRE: NON POSSIAMO PERDERE UNA GUERRA OGNI TRE ANNI PER FARTI FARE BELLA FIGURA” - “I CRITICI NON SONO MAI INTELLIGENTI, SE LO FOSSERO FAREBBERO ALTRO” - CHIARA, L’ULTIMA COMPAGNA: “L’UNICA VOLTA CHE MI DISSE ‘TI AMO’, LO FECE PERCHÉ CREDEVA CHE DORMISSI”…

Malcom Pagani per "il Fatto quotidiano"

Al quarto giorno nel deserto algerino, Branca-leone Gassman avvertì nostalgia per Norcia smarrendo ruolo, pazienza e coordinate: "Mario, ma quanto dobbiamo rimanere ancora qui in questo inferno?". Monicelli si incazzò, come faceva spesso e diede il via alla crociata: "Vittorio sei solo un borghesuccio. Ti manca Piazza del Popolo? Vorresti mangiare al Bolognese?". Litigava con gli amici e diceva di non aver paura, il ragazzo di Viareggio che aveva attraversato due guerre.

La forma non era mai sostanza, ma una scorciatoia da percorrere impermeabili all'ipocrisia e alla noia. Camminava per le strade dei ragazzi di Via Panisperna con la sciarpa al collo, il cappello e gli occhiali, inseguendo la nascosta metafisica dell'anagrafe e schermandosi quando era necessari, senza negarsi né negare la curiosità: "anche della morte". Dal volo invernale in una serata romana di novembre del 2010 sono passati quasi quindici mesi, ma Mario Monicelli imparò in tempo utile che nessun trapasso è davvero definitivo. Decise lui. Quando vivere. Quando morire. Quando uscire di scena.

Era ricco, Monicelli. Padrone delle sue due camere e cucina, sultano nella libertà di poter riempire la moka senza obblighi sociali: "Perché 90 anni è un'età meravigliosa, puoi dire ciò che vuoi e stancarti all'improvviso allontanando i rompicoglioni". Navigava nella sua indipendenza senza farsi trainare a riva, Mario. Geloso dei suoi spazi, laico nell'osservare un passato che rimodellava in continuazione nel presente.

Lo stimolavano sul trionfo di ‘'Amici miei'' e lui spiazzava: "Non lo voleva produrre nessuno ed ebbe un esito inaspettato, ma non lo meritava". Lo adulavano e lui fuggiva, senza nostalgia, a rielaborare quella che i curatori di un bel documentario ora in corsa per Cannes hanno chiamato ‘'La versione di Mario''. Lo hanno girato cinque registi (Canale, Farina, Gianni, Labate e Morri per Istituto Luce, Surf e Rai Cinema), esplorando con la complicità del protagonista il suo territorio. Il confine di Monicelli.

L'essenza di una parabola. Compagni di viaggio (Risi padre e figlio, Scarpelli, Scola, le note di Piovani) e poi donne, famiglia, polemiche e riflessioni politiche restituite senza pietismi. Così vedi l'uomo che non temeva le tempeste di sabbia (in Cirenaica, dietro la macchina da presa, a vent'anni come a 91 per La Rosa nel deserto) camminare a schiena dritta e ne ascolti il vento.

Una voce capace di rapire con immagini e parole ("Ma senza sopravvalutazioni-diffida Monicelli- se avessi voluto fare letteratura avrei fatto lo scrittore"). Un suono apodittico, autoritario, ironico. Con il toscano imbastardito da troppi anni con vista sul Colosseo e il tono lieve di chi seppe nuotare tra tragico e comico giocando di sponda tra i due registri.

In settanta minuti sinceri, con il rischio dell'apologìa in cantina (Monicelli non avrebbe perdonato) La versione di Mario riesce nell'impresa dell'autoritratto in cui ogni elemento trova l'equilibrio con le contraddizioni. Intorno, mentre le massime di Monicelli inseguono razionalismi perduti e artigianato ("Lavoravo molto prima di iniziare perché sul set non ci fossero sorprese o ritardi"), si sogna osservando l'eredità di un affresco di disperante attualità. Mogli infedeli e borghesi piccoli piccoli, bassezze e violenze, parenti sibilanti come bisce "Non mangiare che mi vieni su con un culo che fa provincia" e colonnelli golpisti.

E si va avanti e indietro con la memoria, grazie ai super 8 di casa Steno (il fratello acquisito di un periodo irripetibile ), alle riprese d'epoca, ai frammenti ritrovati in archivio che rimandano reliquie sgranate di un Monicelli sotto falso nome (Michele Badiek) impegnato a girare film non sopravvissuti alla Storia. Lui si presta con malcelata impazienza: "Devi fà tre minuti, tu alla fine butti tutto di stà roba" e tra un bicchiere di bianco e una tirata dissacrante: "A Rossellini lo dicevamo sempre: non possiamo perdere una guerra ogni tre anni per farti fare bella figura" riallinea l'epopea di un'età dell'oro: "Antonioni e Fellini rispondevano solo alla loro poetica, io non dimenticavo mai che esisteva il pubblico". Sul greto del Monicelli più noto, sotto il letto di un fiume inquieto e severo, scorrono le istantanee nascoste.

Il pessimo carattere con Carlo Vanzina che rammenta gavette di impronta militare: "Mi umiliava, ero terrorizzato", il rapporto con le donne: "Sarà stato anche misogino - sorride Goffredo Fofi- ma ha disegnato come nessuno l'universo ipermaschilista dell'Italia dei '50", i bianchi e neri di famiglia. La figlia, Martina, che non ricorda un solo bacio di suo padre Mario ma ha saputo crearsi gli anticorpi per domare il rimpianto e illuminarsi godendo dei ricordi: "Papà era un ribelle casalingo. Bastava un sorriso per conquistarmi".

Per Monicelli non era fondamentale. Marciava, a volte con protervia, in una direzione indifferente agli agguati del gusto. "I critici non sono mai intelligenti, se lo fossero farebbero altro" ma non cercava scuse: "Se non incassavo una lira ero certo che la colpa fosse mia". Un'assunzione di responsabilità nata sull'esperienza. Imperniata sulla verità di certi giochi adolescenziali da giovane uomo nella Versilia degli anni '30, tra le balere sul lungomare e le acrobazie mute di Chaplin, dove si cresceva in fretta e bluffare era sconsigliato.

Il Monicelli di ieri, senza il quale non avrebbe pulsato l'indole dissacratoria che lo faceva andare ai funerali, individuare il più vecchio tra i presenti, cercarlo con gli occhi e trafiggerlo: "La prossima volta tocca a te". Mario riservava agli altri la stessa moneta con cui esaudiva i suoi desideri. Quelli di ragazzo: "Nel Paese appena bombardato dai tedeschi si respirava una febbre meravigliosa. La gente edificava una cosa che non c'era mai stata: la libertà".

Quelli dell'età matura in cui vaticinare da grillo parlante: "La speranza è una truffa. Una trappola per licenziare i giovani" e quelli da tenere nascosti, in silenzio, come sussurra con lampo inatteso, in un esorcismo tardivo, Chiara Rapaccini, l'ultima compagna: "L'unica volta che mi disse ‘ti amo', lo fece perché credeva che dormissi". Era sveglia, e ancora oggi benedice l'insonnia.

 

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