PROPOSTA L’ABOLIZIONE DEL REATO DI DIFFAMAZIONE: È LA VOLTA BUONA O L’ENNESIMO BLUFF?

1 - "VIA IL CARCERE PER LA DIFFAMAZIONE"
PROPOSTA PDL: RETTIFICHE OBBLIGATORIE, MULTE E RISARCIMENTI RIDOTTI
Liana Milella per "La Repubblica"

Diffamazione, si riparte. A Montecitorio. Via il carcere, pene da 5 a 10mila euro, rettifica obbligatoria, risarcimento massimo a 30mila. Due gli aspetti negativi: interdizione fino a sei mesi in caso di recidiva, rettifica obbligatoria sui quotidiani anche per i libri. In compenso il web è salvo.

Il pidiellino Enrico Costa ha appena presentato una proposta di legge sull'onda del nuovo caso di un direttore (Mulè) e di un giornalista (Marcenaro) condannati entrambi al carcere. Sarebbe potuto non accadere se, dopo la vicenda Sallusti (poi graziato da Napolitano), nell'autunno 2012 al Senato non si fosse persa l'occasione di riscrivere la legge per via di un asse Lega-Pdl che non voleva abolire la galera per un reato d'opinione.

Adesso Costa ritorna alla proposta di legge votata da tutta la Camera due legislature fa. Dice subito: «La mia è un'ipotesi aperta, ma mi auguro proprio che non venga stravolta da emendamenti inaccettabili». Giusto come avvenne al Senato. Il rischio c'è perché se a parole tutti sembrano d'accordo trasversalmente nell'eliminare la detenzione, poi nel voto segreto riemergono pulsioni punitive.

Costa elimina il carcere del tutto. L'attuale pena da uno a 6 anni viene sostituita con una multa da 5 a 10mila euro. «Prevedere la cella per un reato d'opinione è una forzatura ordinamentale da eliminare» dice Costa che punta sulla rettifica obbligatoria, sul risarcimento e sulla sospensione dall'albo da uno a sei mesi. Misura drastica questa, obbligatoria e non facoltativa, applicabile solo ai recidivi.

Diventa obbligatoria la rettifica. Costa la prevede «senza commento», ma sarebbe opportuna una clausola di salvaguardia per rettifiche che contengono notizie false e per cui la replica non può essere esclusa. Ugualmente dovrà pesare la rettifica spontanea.

Costa salta a piè pari il capitolo del web, che al Senato diventò occasione di duro scontro. Per i libri ipotizza la rettifica su due quotidiani, entro sette giorni. Anche questa misura è drastica, perché sarebbe sufficiente la correzione in caso di ristampa o comunque nella prima edizione raggiungibile.

Pesante pure il capitolo del risarcimento che «non può comunque eccedere i 30mila euro». Non poco, con i tempi che corrono per l'editoria. Se l'autore della diffamazione ha già "colpito" la stessa persona, il giudice è libero da tetti. Si riduce a un anno il limite di tempo per l'azione civile.

Cade il carcere anche per il direttore responsabile che, per Costa, risponde con un terzo della multa originaria, se «il delitto è conseguenza della violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione». Rimane aperto il caso, come per Sallusti, degli articoli non firmati o per i quali non sia possibile risalire all'identità dell'autore. Comunque, se l'ipotesi Costa dovesse diventare, né Sallusti né Mulè rischierebbero la galera.

Un capitolo a sé merita la questione delle querele temerarie. Quelle strumentali, per cui l'autore andrebbe punito rivedendo il codice di procedura civile (articolo 96). Costa prevede che il giudice possa «condannare il querelante a una somma da mille a 10mila euro in favore della cassa delle ammende», ma il naturale destinatario dovrebbe essere invece lo stesso imputato assolto.


2 - DIFFAMAZIONE, BASTA SDEGNO A FASI ALTERNE TROPPE LE AMNESIE SULLA LIBERTÀ DI STAMPA ECCO LE 4 MODIFICHE DA ATTUARE SUBITO
Caterina Malavenda per "La Repubblica"

Giorgio Mulè, direttore di «Panorama», è stato condannato a otto mesi di reclusione, per omesso controllo su un articolo di Andrea Marcenaro, a sua volta condannato, insieme a Riccardo Arena, a un anno di reclusione, per diffamazione ai danni del Dott. Francesco Messineo, attuale procuratore di Palermo. A tutti gli imputati, cui è stata inflitta anche una multa, non sono state concesse le attenuanti generiche, mentre a Mulè e Marcenaro è stata anche negata la sospensione condizionale della pena.

Le sentenze non si commentano, ma si rispettano e si impugnano. Se la sentenza fosse confermata nei successivi gradi di giudizio, tuttavia, entrambi dovrebbero espiare la condanna, sia pure, probabilmente, in affidamento in prova ai servizi sociali, qualora accettassero di chiederlo.

Il problema non è, dunque, il rischio del carcere che, grazie alle misure alternative alla detenzione, può essere evitato, ma che la reclusione possa essere uno degli epiloghi di un processo per diffamazione, anche grazie alla contemporanea vigenza di norme antiche, chiunque sia il querelante e persino quando le censure riguardino non la diffusione di fatti falsi, ma quella di opinioni più o meno forti.

Dovrebbe essere chiaro - e la Cassazione lo dice da anni - che non si può censurare un'idea, se pure non condivisa, né processare chi la esprime, eppure si può querelare chi lo fa e le condanne non sono rare, per quell'accostamento suggestivo, quel termine ambivalente, quella perifrasi ardita che giustificano severe sanzioni e risarcimenti non modesti.

Poi arriva la sentenza che non ti aspetti, la condanna del giornalista che stimi o di quello che detesti, ma ancora una volta, si levano alti e bipartisan i lamenti di chi grida allo scandalo, di chi promette o auspica interventi risolutivi, misure drastiche che sanino il vulnus alla democrazia, di chi intravede la congiura di pochi o della casta contro la libera stampa.

Eppure molti di loro erano in Parlamento, meno di un anno fa, quando, ancora una volta sollecitati dalla condanna di un direttore, dettero un pessimo esempio di come, per difendere un giusto principio, si possa addirittura peggiorare l'esistente.

Con qualche capriola, destra e sinistra unite, un fulgido esempio di larghe intese anticipate, riuscirono prima a eliminare e poi a reintrodurre il carcere, senza neppure riprendere fiato, cercando anche di inserire, in un agile disegno di legge iniziale, tali e tanti emendamenti, da confondere anche il più attento dei notisti parlamentari. La riforma fu ritirata per sfinimento, ma soprattutto perché il problema contingente, che aveva scatenato la bagarre, venne risolto dall'intervento risolutivo del capo dello Stato.

Oggi si ricomincia, esattamente come allora, chiedendo a gran voce il ripristino della democrazia menomata, domani ci saranno certo problemi più seri e la questione tornerà nel dimenticatoio fino alla prossima condanna.

Eppure basterebbero pochi e semplici interventi, per risolvere la gran parte dei problemi, senza stracciarsi le vesti poi, se i giudici applicano la legge: riforma dell'istituto della rettifica, prevedendo che, ove ripristini tempestivamente la verità, inibisca la querela; l'abrogazione dell'art. 13 della legge sulla stampa, che prevede la multa e la reclusione fino a sei anni; un tetto massimo per la liquidazione dei danni morali, perché ne ferma più l'ufficiale giudiziario che il timore del carcere; e stabilire, infine, che si possa processare solo chi diffonde volontariamente fatti falsi e diffamatori, lasciando il resto alla giustizia civile.

Troppo semplice? Forse. Certo gli interventi auspicabili sarebbero molti di più, ma la tentazione forte di consumare vendette e di bloccare notizie scomode, alzando il prezzo, che ha già affossato i precedenti tentativi, potrebbe ancora una volta fermare chi davvero intende fare qualcosa.

 

GIORGIO MULE GIORGIO MULE BEPPE SOTTILE ANDREA MARCENARO Andrea MarcenaroL'ARRESTO DI SALLUSTI Caterina MalavendaIL PROCURATORE FRANCESCO MESSINEO

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