LA VENEZIA DEI GIUSTI - DIVIDERÀ NON POCO IL PUBBLICO IL PRIMO FILM DI DANIELE CIPRÌ, METÀ DELLA CELEBRE COPPIA CIPRÌ E MARESCO - BRAVISSIMO NELLA COSTRUZIONE DI IMMAGINI E NEL MUOVERE LA SUA UMANITÀ DISASTRATA, CIPRÌ SEMBRA QUASI UN REGISTA ESORDIENTE NELL’AFFRONTARE UNA STORIA CHE FORSE NON HA IL FIATO DEL RACCONTO LUNGO - TONI SERVILLO IN GRAN FORMA, ESAGERATO E GROTTESCO, ATTORI NON PROFESSIONISTI CHE FUNZIONANO, UNA STORIA PICCOLA CHE SOFFRE DI UN COMPROMESSO TRA CINICO TV E IL CINEMA COMMERCIALE…

Marco Giusti per Dagospia

"E' stato il figlio" di Daniele Ciprì.

Dividerà non poco il pubblico il primo film di Daniele Ciprì, cioè la metà della celebre coppia Ciprì e Maresco, poi direttore della fotografia per Roberta Torre e Marco Bellocchio. E' ovvio che non si riesca a mantenere uno sguardo sereno rispetto a questo "E' stato il figlio", uno dei tre film italiani in concorso a Venezia, e lo capiranno meglio i critici internazionali che i nostri, costretti al paragone con i precedenti lavori di Ciprì e Maresco in coppia, cioè "Lo zio di Brooklyn", "Totò che visse due volte" e "Cagliostro".

E costretti magari anche a prendere una posizione dopo il doloroso distacco dei due, degno di quelli celebri fra Franco e Ciccio o tra Giusti e Ghezzi. Per molti, così, "E' stato il figlio" rappresenterà un tradimento rispetto all'estetica e alle regole cinematografiche talebane di Cinico TV. Bianco e nero, nessun attore professionista, nessuna musica imposta. Per altri, invece, rappresenterà una liberazione da quel mondo chiuso e un'apertura verso un cinema internazionale legato all'immagine, al raccontino morale che vede nel particolare l'universale.

Costruito su una fotografia spettacolare dello stesso Ciprì e interpretato da un cast strepitoso che vede protagonisti un Toni Servillo in gran forma (sì, magari a volte esagera, ma Servillo è come Volonté, prendere o lasciare) e il cupo Alfredo Castro, il "Tony Manero" del cileno Pablo Larrain, "E' stato il figlio" racconta una storiellina palermitana raccolta dallo scrittore Roberto Alajmo, che ha scritto pure il film assieme allo stesso Ciprì e allo specialista di realismo magico e grottesco Massimo Gaudioso ("Benvenuti al Sud" e "Reality"). Una modesta famiglia palermitana supera il dolore per la morte della bambina più piccola, uccisa da una pallottola vagante della mafia, con 220milioni di risarcimento da parte dello Stato.

Il capofamiglia non vede di meglio che spendere tutto nell'acquista di una Mercedes. Ma quando la Mercedes verrà rigata dal figlio per un banale incidente scoppierà la tragedia. Il tutto è raccontato davanti al bancone delle poste da uno strano personaggio, Busu, cioè Alfredo Castro, assieme a altre storielle palermitane. Ciprì mantiene, del mondo di Cinico TV, il gusto per i set urbani bizzarri, qui Palermo è in gran parte ricostruita in Puglia per doveri di Film Commission, un'umanità eccessiva, ciccioni, forforosi, vecchi e vecchie impossibili, ma anche bambini bellissimi.

Mischiare attori di cinema, come Servillo o Giselda Gilodi, che fa la madre, Francesco Falco, che fa il figlio, con altri non professionisti, in realtà funziona. E la chiave del grottesco scelta da Servillo domina tutte le scene. Anche perché Ciprì e Servillo giocano su un alto livello la chiave del grottesco e lo sguardo su questa umanità non è né cinico né pornografico, ma spesso umano. La fotografia, fin troppo bella, non permette magari al Ciprì regista di costruire alla perfezione le sue scene, che sembrano spesso un compromesso fra l'estetica dei corti di Cinico TV e la logica del cinema commerciale.

Anche la sceneggiatura, che parte da questa storia tragica e bellissima, soffre di qualche stanchezza quando la messa in scena non riesce a dare un ritmo al racconto. In qualche modo, Ciprì si porta dietro il mondo di Cinico che le sue stesse immagini avevano costruito, ma anche qualche difetto dei film precedenti, in qualche modo i loro lungometraggi soffrivano della loro provenienza dal corto.

Bravissimo nella costruzione di immagini e nel muovere la sua umanità disastrata, Ciprì sembra quasi un regista esordiente nell'affrontare una storia che forse non ha il fiato del racconto lungo. Al tempo stesso si muove con grande generosità verso i suoi attori e i suoi buffi personaggi, dotati ognuno di una vita propria ben definita. E la stessa generosità ritroviamo nella sontuosità fotografica, che lo spinge lontano dal mondo di Cinico Tv e più vicino a quello di cineasti come Larrain o Garrone.

 

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