IL SALOTTO BUONO TRASLOCA IN TRIBUNALE - I BOSS DELLA FINANZA ITALIANA SI FANNO LA GUERRA A COLPI DI DENUNCE

Giorgio Meletti per il "Fatto quotidiano"

Le anime belle del garantismo per i soli potenti non vedono che ormai i giustizialisti sono i loro idoli. I veri manettari, i mozzaorecchi sono gli imprenditori in guerra tra loro, in gara per chi arriva primo alla procura della Repubblica per spifferare cose che voi umani non potete immaginare.

Quando la giustizia si muove, subito parte il lamento degli spiriti liberi (a stipendio fisso) sulla magistratura che ostacola le forze del mercato. Non sanno, i cantori dell'innocenza a prescindere, che sempre più spesso il processo nasce dall'esposto di un loro editore.

Il tabù l'ha rotto nel 2007 (in coincidenza con l'inizio della grande crisi) Margherita Agnelli, figlia dell'Avvocato, facendo causa alla madre Marella Caracciolo e ai figli John, Lapo e Ginevra Elkann sulla successione congegnata in modo da far passare direttamente dal nonno al nipote prediletto (John) il controllo della Fiat. L'ereditiera insoddisfatta avanzò il sospetto che suo padre nel 1998, attraverso l'operazione nota come Opa Exor, avesse fatto sparire in Svizzera un miliardo 463 milioni 243.000 euro.

Cifra sottratta, secondo le insinuazioni della figlia, ai soci di minoranza, tra i quali parenti stretti e meno stretti, al fisco e all'asse ereditario. Pochi giorni fa, il giudice di Milano Cristina Mannocci, in una delle numerose sentenze della complessa lite, nella quale Margherita ha perso quasi sempre, ha scritto: "Le complesse indagini della Procura di Milano, attuate e anche tentate, inducono a ritenere verosimile l'esistenza di un notevolissimo patrimonio del defunto Giovanni Agnelli rimasto occultato al fisco italiano e anche alla figlia".

Morale: la figlia ha dato del ladro al defunto padre (e che padre) e i benpensanti, figli e madre compresi, gli hanno dato sostanzialmente della matta. "Le belle famiglie italiane", avrebbe gridato gioioso il grande Vittorio Gassman de "Il sorpasso".

Il copione si sta consolidando. Ai tempi di Mani Pulite c'era un accordo preciso, stretto dai maggiori imprenditori durante una riunione in Mediobanca con Enrico Cuccia, burattinaio del capitalismo di relazione: omertà. I top manager in genere si sono presi le colpe per salvare i riconoscenti padroni. Esempio classico: Cesare Romiti , condannato per i falsi bilanci Fiat, giurò che l'Avvocato non ne sapeva niente, e pochi anni dopo lasciò la Fiat accompagnato con una liquidazione da 101,5 milioni di euro, superiore alla somma di tutti gli stipendi di 24 anni.

Adesso che le cose vanno male è scattato il tutti contro tutti. Giancarlo Giannini, ex presidente dell'Isvap, è indagato per corruzione per aver finto di non vedere il dissesto Fonsai in cambio della promessa di Salvatore Ligresti di propiziargli presso gli amici Silvio Berlusconi e Gianni Letta la presidenza dell'Antitrust. Vedere le poltrone nelle autorità di garanzia farsi prezzo della corruzione stringe il cuore, ma il punto è che a mettere nei guai Giannini è il professor Fulvio Gismondi, superconsulente di Fonsai per i calcoli attuariali, decisivi per la solidità patrimoniale di una compagnia assicurativa.

Gismondi due anni fa è stato condannato a tre anni per corruzione (corruttore sarebbe stato Stefano Ricucci) insieme all'ex presidente della Confcommercio Sergio Billè. Stavolta il professore ha giocato d'anticipo e visti i nuvoloni è corso a raccontare agli inquirenti giudici le malefatte dei Ligresti, che per anni aveva aiutato dietro congrua retribuzione.

Cadono le solidarietà. La prossima candidata al ruolo di "matta" è Giulia Maria Ligresti, 45 enne secondogenita di Salvatore. L'hanno arrestata mercoledì scorso mentre limava un memoriale inteso a spiegare ai magistrati come la vera porcheria della vicenda Unipol-Fonsai sia il comportamento di Mediobanca e Unicredit.

In ben tre deposizioni la signora "ha ribadito la tesi del complotto delle banche e dei salotti che contano", e come vedete con un linguaggio da anticapitalista giustizialista da tre soldi. Eppure era fino a pochi mesi fa presidente e amministratore delegato di Premafin e vicepresidente di Fonsai. Potrà puntare il dito contro di lei Alberto Nagel, numero uno di Mediobanca, dopo 25 anni di simbiosi assoluta tra l'istituto fondato da Enrico Cuccia e la dinastia ligrestiana di cui tutti adesso si fanno beffe? Per anni Marco Tronchetti Provera l'ha voluta nel cda di Telecom Italia Media, la società quotata che gestiva La7. Potrà adesso predicare la sua inattendibilità?

La sorella di Giulia, Jonella Ligresti , ha messo nei guai Nagel andando a raccontare ai magistrati dell'accordo segreto con cui il boss di Mediobanca avrebbe promesso alla famiglia la sontuosa buonuscita espressamente vietata dalla Consob. Per fare danno fino in fondo, Jonella si è presentata dall'avvocato Cristina Rossello, presunta depositaria del "papello", con un microfono nascosto per registrare una conversazione con espliciti riferimenti all'esistenza di quel contratto firmato.

Nagel, indagato per ostacolo all'autorità di vigilanza, ha reagito trattando il grande Ligresti da ottantenne rimbambito, specificando che quella firmetta senza valore l'ha messa per tenerlo buono, visto che il vecchietto minacciava il suicidio. Ecco, l'economia italiana in mano ai protagonisti di queste scene horror da ospizio che, caduto ogni pudore, vengono pure raccontate.

E che dire di Tronchetti? Deve la condanna a 20 mesi per ricettazione, nel processo sullo spionaggio all'agenzia Kroll, alla testimonianza decisiva del fidatissimo Giuliano Tavaroli, per anni capo della sicurezza di Pirelli e di Telecom Italia. Quando è esploso lo scandalo dei dossieraggi illegali (2006), il capo ha scaricato l'ex poliziotto che a sua volta l'ha incastrato. Non solo. Tronchetti ha preso malissimo la costituzione di parte civile intrapresa dal successore alla guida di Telecom Italia, Franco Bernabè, che ha chiesto e ottenuto dal tribunale i danni.

Anche qui, il punto non è chi ha ragione e chi torto. Il punto è che Tronchetti ha ceduto Telecom a una cordata guidata da Mediobanca di cui è vicepresidente, che ha scelto Bernabè il quale, appena nominato, ha sentenziato coram populo di aver trovato un'azienda "spolpata" dal predecessore. Il condannato protesta contro l'ingiusta sentenza e consegna al Corriere della Sera una sinistra profezia: "Vuole le ragioni vere? Prima o poi emergeranno". La sfida tra Bernabè e Tronchetti è simbolo del capitalismo di relazione che diventa capitalismo di delazione.

 

ALBERTO NAGEL E SALVATORE LIGRESTImediobanca mediobancalogo mediobanca Cesare Romiti Cesare Romiti GIANNI AGNELLI GIANNI AGNELLI IN TRIBUNA TRONCHETTI PROVERA

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