ARCHITETTURA E POTERE, TRA BENE E MALE

1. L'ARCHITETTO E IL DITTATORE - "MAI SERVI DEL POTERE" DA BOTTA A GREGOTTI AUTODIFESA DI UN'IDEA
Francesco Erbani per "la Repubblica"

La questione potrebbe ridursi a una distinzione elementare: una cosa è Albert Speer, un'altra Giuseppe Terragni. Una cosa l'architetto che immaginò le scenografie dei raduni hitleriani e a Berlino disegnò il Palazzo della Cancelleria, dove dal colore dei marmi all'altezza dei gradini, ogni dettaglio rimandava all'onnipotenza assassina del Führer. Altra il progettista brianzolo che, certo, realizzò la Casa del fascio a Como, ma anche il Novocomun e diversi edifici di intramontata pulizia formale, levigati, lineari e funzionali.

La polemica sul rapporto fra architettura e potere, compresso in quello più stretto ancora fra architettura e dittatura, è stata rilanciata da un'intervista di Daniel Libeskind all'Architects Journal.

Libeskind, ebreo polacco, famiglia sopravvissuta ai lager, cittadino americano, architetto giramondo (dal Jewish Museum di Berlino al Master Plan per il nuovo World Trade Center di New York, dalla torre del discusso City Life di Milano al Museo di storia militare di Dresda) criticava chi costruendo «strade scintillanti» lavora in paesi retti da dittature. Niente nomi e neanche accuse a colleghi (come ribadisce nell'intervista a
Repubblica qui accanto).

Il pensiero, però, è naturalmente corso ai tanti architetti impegnati in Cina o negli Emirati Arabi o altrove. Ma ha anche investito un orizzonte largo, quello dell'architettura che celebra, che si mette al servizio di, che non lavora per il fratello-uomo (avrebbe detto Le Corbusier), ma per fini apologetici. Per un dittatore, ma non solo.

«Lavorare per un despota è ignobile»: l'opinione di Joseph Rykwert definisce con nettezza un confine politico e persino etico e lo rende insormontabile. Ma è proprio Rykwert, storico dell'architettura fra i più illustri al mondo, a introdurre la distinzione fra Speer e Terragni: «Terragni costruisce la Casa del fascio a Como per un fascismo di sua invenzione».

Dunque il punto non è solo nella moralità e nella immacolata limpidezza democratica di chi commissiona un lavoro, quanto nel modo in cui l'architetto interpreta il proprio lavoro. Secondo Rykwert, «gli architetti perdono prestigio professionale e autonomia artistica quando si piegano in modo indifferente agli ordini di un cliente - chiunque esso sia, un dittatore o un grande immobiliarista - senza badare al rispetto per la res publica».

Dietro l'architettura si scorge sempre un committente e spesso il committente ha potere oppure ha soldi... «Ovviamente. Ma basta andare con la memoria a Leon Battista Alberti, che era al servizio di Sigismondo Malatesta, a Michelangelo o a Jules Ardouin-Mansart, che costruivano per Giulio II e per Luigi XIV, e persino a Le Corbusier, che chiese commesse a Stalin. L'importante è capire in qual misura questi architetti mantennero la propria autonomia e restarono consci del contributo che dovevano offrire al benessere comune». D'altronde anche Virgilio fu al servizio di Augusto e Ludovico Ariosto visse alla corte Estense.

Su ‘Architettura e potere' Deyan Sudjic ha scritto un libro edito da Laterza nel 2011. Sottotitolo: «Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo». Sudjic, critico, direttore del Design Museum di Londra, racconta le monumentali architetture di Hitler e di Saddam Hussein e sostiene che «l'architettura esiste indipendentemente dai suoi committenti ».

L'importante è che sia buona architettura. E la buona architettura non ha occhi solo per chi paga. Aggiunge Rykwert: «La moralità dell'architetto non deve tenere in conto le credenziali politiche del cliente, tanto più se il più sfacciato degli speculatori immobiliari dovesse esibire un volto "democratico": l'architetto deve badare a quel che il suo lavoro può dare al bene comune. Ed è questo un compito sempre più difficile».

Durante il nazismo, spiega Franco Purini, professore alla Sapienza di Roma, oltre a Speer, «altri progettisti disegnavano scuole e case: una scuola o una casa non sono un monumento al Führer». Ma può essere considerato un monumento al regime cinese l'edificio che Rem Koolhaas, stella lucente dell'architettura internazionale, ha realizzato a Pechino per la Tv di Stato? «Non c'è celebrazione in quel progetto. Nell'asse spezzato, invece, io vedo un elemento dubitativo», risponde Purini. Secondo il quale persino negli allestimenti che l'architetto olandese ha realizzato per le case di moda «c'è un'inclinazione positiva verso il mondo del lusso, ma non celebrativa».

Molto più severo è Vittorio Gregotti, per il quale dall'irruzione del post moderno, anni Ottanta, «molti architetti si sono prodigati nel fornire un ritratto edificante del sistema capitalistico globale. E hanno scelto forme continuamente cangianti che rispecchiassero la flessibilità del mercato e l'esasperazione del consumo». Ma il capitalismo finanziario e una spietata dittatura sono la stessa cosa?

«No. Ma dal punto di vista dell'influenza sull'architettura, certamente. Prendiamo Koolhaas: in accordo con le ideologie neoliberiste, ha sempre teorizzato l'insignificanza del disegno urbano, l'indifferenza di questo rispetto al progetto di architettura. E ha capito benissimo che il capitalismo finanziario globale non è affatto incompatibile con il sistema cinese».

Anche lei, però, ha lavorato in Cina. «Era il 2000. Ho partecipato a un concorso su invito della figlia di Deng Xiaoping per realizzare una città di piccole dimensioni sulla quale scaricare la congestione di Shangai ». E non c'è in questo un'adesione alle direttive politiche del regime? «No. È un intervento che si muove, aggiornandola, nella tradizione delle new town inglesi.

Quanto alle forme urbane, mi sono riferito agli antichi insediamenti cinesi. In Arabia Saudita abbiamo costruito una scuola femminile che non aderisce per nulla alla marginalizzazione cui le donne lì sono sottoposte». Lavora in Cina anche Mario Botta. «Stiamo realizzando un'accademia d'arte e un albergo a Shangai», dice l'architetto ticinese. «I miei committenti? Sono gli artisti, dai più tradizionali ad Ai Weiwei». Senza una sottintesa adesione politica?

«Walter Benjamin diceva che il valore politico di un'opera letteraria è l'opera letteraria. Se un architetto vuole far bene il proprio mestiere può riuscirci a prescindere dal cliente. Se si accorge che non è possibile, può rifiutare il lavoro. Per gli architetti la speculazione edilizia è come una forma di nuovo fascismo ». Incalza Gregotti: «Le tre torri di City Life nell'area dell'ex Fiera di Milano affidate ad Arata Isozaki, Zaha Hadid e Libeskind, che cosa sono se non un progetto completamente scollegato dalla città, in cui ciò che conta sono il valore del terreno e la rendita del privato?».


2. LIBESKIND INSISTE "MA C'È CHI COSTRUISCE STRADE PER I DESPOTI"
Francesco Erbani per "la Repubblica"

«Non ho criticato nessun architetto. Ho semplicemente espresso la mia etica professionale». Daniel Libeskind risponde seccamente alla domanda su chi fossero i suoi bersagli polemici quando, nell'intervista ad Architects Journal, se la prendeva con chi progettava in paesi dittatoriali. Libeskind sarà a Roma lunedì per inaugurare una mostra di suoi disegni alla Ermanno Tedeschi Gallery, in via Portico d'Ottavia, nel cuore dell'antico ghetto ebraico.

Non ha criticato nessuno, d'accordo. Ma è possibile distinguere un committente dal punto di vista etico?

«Certamente, si fanno scelte in relazione a dove si lavora, come si lavora e con chi si lavora. L'architettura è stata a lungo strumento usato da governi autoritari e tirannici nella promozione della loro visione del mondo. Per coloro ai quali interessano le conseguenze, consiglio la lettura della autobiografia dell'architetto di Hitler, Albert Speer».

Lei ha detto: «Gli architetti devono avere una moralità». Qual è la moralità di un architetto?

«Presumibilmente, non solo gli architetti, ma ciascuno di noi dovrebbe avere una moralità. Io credo sia necessario lavorare in situazioni che possono offrire un reale contributo e siano socialmente accettabili. Ora sto progettando, per una società cinese progressista e illuminata, il primo museo pubblico con finanziamento completamente privato nella storia della Cina. E con la medesima società realizziamo housing sociale per i lavoratori».

Lei ha anche detto: «Non sono interessato a costruire strade luccicanti per i despoti». Quanto la forma di un'architettura dipende dal committente?

«Ho visto quelle strade costruite per Hitler e Stalin. Non posso apprezzarle così come non apprezzo il potere che le ha ispirate».

Ma allora qual è la differenza per un architetto se il lavoro è commissionato da una dittatura o da una grande holding finanziaria?

«Coloro che non riconoscono la differenza tra una dittatura e una multinazionale sono ignoranti o fingono di esserlo. Le multinazionali hanno una responsabilità verso i loro dipendenti, i loro azionisti e sono soggetti a vincoli di legge. I dittatori non sono soggetti a tali vincoli. L'idea che sia preferibile lavorare in un luogo che sfrutta manodopera immigrata senza alcun diritto, piuttosto che lavorare per una società privata o una multinazionale che rispetta le leggi è inaccettabile. Credo nella necessità di sostenere la democrazia e le democrazie nascenti dovunque esse si trovino».

Il titolo della mostra romana è Never Say the Eye is Rigid (Mai dire che l'occhio è rigido). Qual è il senso di questo titolo?

«È la prima occasione in cui espongo disegni di architettura in Italia. In mostra figurano disegni eseguiti con varie tecniche grafiche (matita, inchiostro, acquerello) per progetti che vanno dai musei alle torri residenziali, a edifici commerciali e ville private. Molti schizzi illustrano il percorso creativo verso la realizzazione di un edificio, come il Museo Ebraico di Berlino o Ground Zero. Il titolo sottolinea l'importanza della libertà visiva e dell'immaginazione. L'architettura è incentrata sulla libertà della mente, dell'occhio e della mano».

 

Libeskindlibeskind lezione in cina jpegDaniel Libeskind in Cina Rem KoolhaasMARIO BOTTA lo studio di vittorio gregotti jpegMassimiliano Fuksas

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