DOPO IL 25 LUGLIO – QUANDO NENNI, CONFINATO A PONZA, RITROVÒ MUSSOLINI - EDDA CIANO: ‘’A QUEI DUE LI LEGAVA LA ROMAGNA, LA TESTA DURA. E LA GALERA”


Fabio Martini per "la Stampa"

Sembra il piano-sequenza ideato per un film epico, ma la scena è realmente accaduta, una mattina di settanta anni fa. È il 28 luglio 1943, sono trascorsi tre giorni dalla notte del Gran Consiglio e il socialista Pietro Nenni - confinato a Ponza - apprende dal maresciallo Lambiase una notizia sbalorditiva: Mussolini sta per essere trasferito dai carabinieri proprio lì, su quell'isola di reietti. Nenni si affaccia, scopre che è tutto vero e annota sul diario: «Dalla finestra della mia stanza ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch'egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, legati da una amicizia che paresse sfidare le tempeste della vita», «oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re».

Il ribaltamento dei due destini sembra seguire una nemesi «fisiologica»: Mussolini lascerà subito Ponza, avviandosi verso il declino finale, Nenni diventerà presto uno dei leader della Repubblica. Eppure il rapporto tra i due vecchi compagni si alimenterà di strazianti colpi di scena, sul momento sopiti, ma via via riaffiorati nei decenni successivi, attraverso testimonianze e documenti, alcuni così recenti che non hanno ancora trovato un compendio in sede storica. Una vicenda politica e umana dai tratti shakespeariani.

Mussolini e Nenni erano diventati amici nel 1911: dopo aver partecipato a una manifestazione contro la guerra in Libia, avevano condiviso la stessa cella nel carcere di Forlì. Due poveri ragazzi: Benito, romagnolo di Predappio, ha 28 anni, socialista massimalista, è figlio di un fabbro; Pietro, romagnolo di Faenza, 20 anni, repubblicano, è cresciuto in un orfanotrofio. Due ribelli, pronti a correre qualsiasi rischio per favorire il riscatto dei proletari. Ai giudici Mussolini dirà: «Se ci assolvete, ci fate piacere, se ci condannate ci fate onore!».

Nenni commenterà: «I giudici preferirono farci onore». Ricordando il periodo trascorso in carcere, Nenni fece un ritratto curioso del giovane Benito: se ne stava con la testa in su, guardando il finestrone, per ascoltare le voci dei bambini che giocavano sotto l'alto muro della prigione, perché attorno alle galere allora c'erano spesso dei giardini pubblici, «una crudeltà per i carcerati». Un giorno Mussolini chiamò: «Pietro, quanti anni ha questo bambino?». L'altro: «Undici, forse dodici». Mussolini: «Non capisci niente! Questo bambino ha nove anni ed è biondo!».

Una pennellata sognante e appena quei due uscirono, legarono a tal punto che un giorno la piccola Edda Mussolini fece la pipì sugli unici pantaloni dell'amico di papà. Ma dopo la prima guerra mondiale tra i due romagnoli l'intesa politica si spegne: Mussolini diventa duce; Nenni diventa socialista, fa una scelta di vita, prendendo la strada dell'esilio in Francia, dove porta con sé anche le quattro figlie.

Dopo l'occupazione di Parigi, in fuga dai nazisti, Nenni si nasconde sui Pirenei, dove però viene arrestato nel febbraio 1945 e avviato col vagone piombato verso la Germania. Cioè verso morte certa. Ma una mattina, lo sportello del vagone si apre e al confine del Brennero compaiono due carabinieri: «Lei andrà a Ponza». Racconterà Nenni: «Provai il desiderio di baciarli».

Ma in quei giorni due pensieri si agitavano nella sua testa: chi gli aveva salvato la vita? E che fine aveva fatto la figlia Vittoria, arrestata a Parigi nel 1942 dalla Gestapo per aver diffuso materiale antifascista? A Vivà, come la chiamava il padre, sarebbe bastato rivendicare il diritto di essere giudicata in Italia per evitare la deportazione.

Ma per stare vicina alle sue compagne affrontò l'internamento ad Auschwitz e morirà di tifo nel luglio 1943. Il padre lo saprà soltanto nel 1945, e in quella occasione scriverà un appunto rimasto inedito per 60 anni: «Sono arrivato al Brennero il 5 aprile, Vivà è caduta ammalata una settimana dopo. Se avessi telegrafato a Mussolini sono sicuro che l'avrei salvata», «non mi libererò più da questo pensiero terribile». Pensiero alleviato dalle ultime, commoventi parole di Vivà, impresse sulla lapide del campo: «Dite a mio padre che non ho perso coraggio mai e che non rimpiango nulla».

Se Nenni è convinto che Mussolini avrebbe potuto salvare la figlia, a guerra finita non potrà sorprendersi quando Carlo Silvestri rivelerà le confidenze fatte dal duce: Mussolini aveva raccontato di essere intervenuto nientedimeno che presso Hitler per salvare Nenni, riuscendo a deviare il vagone verso il Brennero. Andò esattamente così?

Nessuno mai lo saprà. Ma pochi anni dopo, un giovane giornalista del Giornale Radio, Sergio Zavoli, si presenta a casa Nenni e, mentre aspetta, assiste a un scena mozzafiato. Vede Nenni che, congedandosi da una signora irriconoscibile nella penombra, le regala una mela: «Prendi, Eddina!». È Edda Ciano venuta a chiedere una mano (e la avrà) per riavere la martoriata salma del padre, occultata dalle autorità governative per il timore di celebrazioni postume. E 30 anni più tardi, proprio Edda spiegherà a Zavoli: «A quei due li legava la Romagna, la povertà, la testa dura. E la galera».

Nemici politici fino all'ultimo, ma uniti da quel grumo indimenticabile di giovinezza. Una scissione interiore, lacerante e umanissima, illustrata una volta per sempre da quel che accadde il 28 aprile 1945 nella redazione dell' Avanti! , quando arrivò la notizia della fucilazione di Mussolini. Racconterà Sandro Pertini: «Nenni aveva gli occhi rossi, era molto commosso, ma volle ugualmente dettare il titolo: "Giustizia è fatta"».

 

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