MA CONTA PIÙ “L’AGIBILITÀ POLITICA” DEL BANANA O LA RAPPRESENTANZA POLITICA DEI SUOI ELETTORI?

Giovanni Orsina per "la Stampa"

Il gran parlare che s'è fatto, e si farà per molti mesi, della «agibilità politica» di Berlusconi ha instradato il dibattito su un binario ingannevole. Se osserviamo il problema dal punto di vista del cittadino Berlusconi, infatti, è evidente che la sentenza va applicata con tutti i suoi annessi e connessi, a meno di non violare in maniera intollerabile il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge.

La questione tuttavia si complica non poco se, invece che guardare in alto alla «agibilità politica» di Berlusconi, guardiamo in basso alla rappresentanza politica dei suoi elettori. Una prospettiva, sia detto per inciso, che la nota diffusa il 13 agosto dal Quirinale ha tenuto ben presente.

Le fazioni politiche e mediatiche più accesamente antiberlusconiane paiono ritenere che, pure se la si studia dal basso, la questione resti comunque semplice. Sulla base di un ragionamento a tre stadi. Innanzitutto, se gli elettori di centro destra hanno scelto di farsi rappresentare da un delinquente, fatti loro. Poi, quegli elettori possono trovare qualcun altro che li rappresenti. Infine (e soprattutto) essi hanno affidato la propria rappresentanza a un delinquente perché in realtà son delinquenti pure loro - magari a bassa intensità: evasione, abusivismo, parcheggio in doppia fila. Se restano sottorappresentati, perciò, tanto di guadagnato.

Nessuno dei tre stadi del ragionamento, tuttavia, sopravvive a un'analisi ravvicinata. Liberiamoci subito del terzo stadio: la maggior propensione a delinquere dell'elettorato berlusconiano non è mai stata dimostrata, ma soltanto postulata - in genere sulla base di un ragionamento ideologico e tautologico: «Chi vota Berlusconi è delinquente, e prova ne sia che vota Berlusconi».

Moltissimi di quegli elettori poi (primo stadio) ritengono di non aver votato per un delinquente perché non hanno mai creduto, e con ogni probabilità continuano a non credere, che il Cavaliere sia un delinquente. Non lo hanno creduto e non lo credono perché sono convinti, con Berlusconi, che dei giudici non ci si possa fidare.

Non se ne fidano fin da quando, vent'anni fa, hanno visto i partiti postcomunisti sopravvivere, unici dell'arco costituzionale, a Mani Pulite - operazione per altro che in origine essi avevano accolto con entusiasmo. Pensano perciò che il Cavaliere sia stato sottoposto a un trattamento iniquo: che sia stato inquisito come nessun altro lo è mai stato; che ciò nonostante si sia trovato piuttosto poco, per un imprenditore del suo calibro; e che quanto è stato trovato, ammesso pure che non sia né poco né veniale, non sia comunque più grave di quel che si troverebbe «dall'altra parte» se lo zelo dei giudici fosse bilaterale.

Moltissimi elettori berlusconiani infine (secondo stadio) credono che solo Berlusconi abbia saputo dar loro il peso politico che, per la loro consistenza numerica, meritano. Malgrado in maggioranza siano con ogni probabilità convinti ormai che debba aprirsi una nuova fase storica, inoltre, essi si ribellano all'idea che ad aprirla siano i giudici.

Ritenendo infatti che i magistrati si siano mossi (in tutto o in parte) non contro il Berlusconi-delinquente, ma contro il Berlusconi-uomo politico, prendono la sua condanna (in tutto o in parte) come un fatto personale: «Vogliono farlo fuori perché rappresenta me; difendendo lui, perciò, difendo me stesso; e malgrado mi abbia stancato, voglio essere io a decidere se e quando cambiare, non farmici costringere da una casta alla cui imparzialità non credo».

Ha ragione a pensare questo, l'elettorato berlusconiano? Ciascuno risponda come crede. Il punto è un altro: se una parte consistente del Paese è convinta, o per lo meno dubita, che l'arbitro giochi con la squadra avversaria, questa convinzione - giusta o sbagliata che sia - crea un macroscopico problema politico. L'espressione va usata con cautela, ma nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani non sono mancati gli elementi di una sorta di guerra civile fredda.

Le fazioni più accesamente antiberlusconiane respingeranno quest'ultima considerazione: parlare di guerra civile significa riconoscere dignità a entrambe le parti in conflitto, mentre quelle fazioni non intendono attribuire ai berlusconiani alcun valore etico né politico. In una democrazia, tuttavia, negare dignità etica e politica a milioni e milioni di voti espressi liberamente per vent'anni non è possibile se non, appunto, adottando una mentalità da guerra civile.

Come uscirne, dunque? Una possibile soluzione è quella della vittoria inequivoca di una parte. In questo momento la parte più prossima alla vittoria è senz'altro quella avversa al Cavaliere, e infatti le fazioni più accesamente antiberlusconiane sono assai eccitate e ansiose di arrivare fino in fondo. Se pure quella è la parte più vicina alla vittoria, tuttavia, ciò non implica affatto che la sua vittoria sia né vicina né certa. Berlusconi, con ogni evidenza, non ha alcuna intenzione di abbandonare senza aver prima dato fondo a tutte le sue risorse. Che non sono poche.

Nessuno si illuda, perciò: ci aspettano mesi e mesi incandescenti di risse e polemiche, di accelerazioni repentine e altrettanto repentine frenate. Mesi e mesi, soprattutto, di poco o nessun governo. E non solo. Un'eventuale vittoria dello schieramento progressista ottenuta in queste condizioni coinciderebbe col trionfo dell'antiberlusconismo più radicale.

Il che con ogni probabilità impedirebbe per l'ennesima volta a quello schieramento di compiere la trasformazione che insegue invano fin dal 1994: l'evoluzione in una sinistra capace di «sfondare» al centro, e dotata perciò di un'autentica vocazione maggioritaria. Sul versante destro, infine, resterebbero milioni di elettori convinti che la propria parte politica sia stata distrutta in un match iniquo, vinto dagli avversari non per loro merito ma per l'indebita intrusione dell'arbitro. Un elettorato reso ancor più scettico, irritato, dispettoso e privo di fiducia nelle istituzioni di quanto non sia sempre stato.

Come altro si può uscire dalla guerra civile, allora? Innanzitutto riconoscendo che si è trattato di una guerra civile. E poi lavorando a un vero compromesso politico, nel quale tutti cedano qualcosa, e chi è più debole ceda di più, ma che sia in grado di chiudere infine una fase storica che produce ormai soltanto tossine esiziali, e di aprirne una nuova che faccia crescere il Paese.

Un compromesso che spetterebbe ai partiti e al parlamento, non al Capo dello Stato, raggiungere. E un compromesso che richiederebbe grandissimo coraggio e altrettanta fantasia: l'Italia - inutile illudersi - non è un Paese normale; la vita politica italiana degli ultimi vent'anni è stata un garbuglio di anomalie che si sono alimentate le une con le altre; e dalle situazioni gravemente anormali ci si può districare soltanto battendo sentieri eccezionali.

 

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