SINISTRATI CONTRO – COSA LEGA D’ALEMA, PRODI, VELTRONI E RENZI? IL VIZIETTO DEL “FUOCO AMICO” SU PALAZZO CHIGI…

Filippo Ceccarelli per "La Repubblica"
Innocente quesito, o malizioso che sia: in quanti mesi Matteo Renzi riuscirà a fare le scarpe a Enrico Letta? Si perdoni qui il brusco approccio e la predeterminazione dell'esito.
Ma l'esperienza, per non dire la recente storia del Pd, offre una tale e ricca e a questo punto persino scontata abbondanza di precedenti da poter rubricare la «sindrome del calzolaio», che appunto fa le scarpe, tra quelle che gli scienziati della politica, e in particolare del realismo, qualificano come le «regolarità» del potere.

E quindi: nel campo del centrosinistra un'irresistibile forza acchiappa sistematicamente il leader del partito, o aspirante tale, e comunque lo porta a desiderare la poltrona del capo del governo. Il quale, a sua volta, non solo ne è consapevole, ma lo capisce benissimo e nel proprio intimo non essendo di rado lui stesso arrivato su tale poltrona spinto da quella stessa irrefrenabile smania.

Così è e così accade, incontestabilmente. Il fatto che Renzi e Letta non perdano occasione per proclamare la propria amicizia non sposta di molto la questione, e semmai la rende più legittima e incalzante. Sia l'uno che l'altro provengono infatti dai ranghi della Dc, e «amici» si chiamavano tra loro i democristiani anche e soprattutto quando facevano ricorso a veleni e pugnali.

Ora Renzi, nel cui linguaggio si sarà notata negli ultimi due o tre mesi una certa ricorrenza di «coltelli » e «accoltellamenti», com'è ovvio per negarne ogni possibile utilizzo. Fin troppo risoluti suonano anzi in pubblico i suoi propositi di fratellanza e lealtà: «E io mi auguro - così al Salone del libro - che il governo faccia bene per il bene di tutti. Non sono di quelli che sperano che faccia male perché se cadesse potrebbe convenirmi a livello personale. Se va bene, può governare anche fino al 2016». Ma è fin troppo evidente che scalpita, morde il freno, ha fretta.

Come ne ebbe, a suo tempo (autunno 1998), D'Alema rispetto al governo Prodi; poi Prodi e Veltroni nei confronti del governo D'Alema (primi mesi del 2000); e infine Veltroni dinanzi alla seconda presidenza di Prodi (inverno 2007). In tutti e tre i casi, nell'arco di appena nove anni, il sortilegio ha fatto in tempo a deliziare l'Ulivo, l'Unione e il Pd. Il loro svolgimento merita uno sguardo disincantato, ma fino a un certo punto.

E dunque, per sommi capi. La prima volta, dopo la vittoria di Prodi, certo propiziata da D'Alema, si disse che quest'ultimo, nemmeno invitato sul palco a festeggiarla, per la rabbia si fece venire i brufoli. In parte gli passarono quando con tutti gli onori il segretario del Pds fu innalzato con tutti gli onori del caso alla presidenza della Bicamerale, ma allorché fu chiaro che non portava da nessuna parte, ecco che il leader Maximo, con l'opportuna collaborazione di nuovi alleati e finti avversari (Marini, Cossiga, Rifondazione) riuscì a fare le scarpe al Prof - cosa che gli fu a lungo rinfacciata, e di cui sembra che un giorno addirittura si pentì.

Ma solo dopo che Prodi, con la partecipazione straordinaria dell'Asinello (Parisi, Rutelli e Di Pietro), di un'altra più trascurabile entità ribattezzata il Trifoglio e un po' anche di Veltroni, gli fece lo stesso scherzetto, del resto annunciato dal Prof con la formula: «Competition is competition». In ballo c'erano un sacco di impicci (capilista alle regionali, referendum su legge elettorale, tfr), ma soprattutto la candidatura per la premiership del 2001. Con l'aiuto della Swg (che quell'anno ebbe il premio per la Satira politica) D'Alema sbagliò previsioni, perse le amministrative e abbandonò Palazzo Chigi il giorno del suo 51° compleanno promettendo: «Non mi farò occhettizzare».

Nel 2007, nato finalmente il Pd, e affidato a furor di popolo nelle mani di Veltroni, subito Prodi, che già guidava una compagine deboluccia assai, sentì puzza di bruciato. C'era anche allora in discussione, come sempre in Italia, una legge elettorale, sulla quale Veltroni stabilì corrispondenza d'amorosi sensi con Berlusconi. Già questo era un affronto. Ma quando Walter dichiarò il partito a «vocazione maggioritaria», il presidente del Consiglio comprese di avere i giorni contati. E infatti Mastella, che da quella vocazione era implicitamente escluso, si chiamò fuori.

Ecco fatto. Tutto torna. La dinamica si ripete con una puntualità tale da poterci caricare l'orologio. Quello di oggi segnala pure che Renzi, quando viene a Roma, ha preso l'abitudine di fare ufficio e salotto in uno dei bar della galleria «Alberto Sordi», che in pratica sta di fronte a Palazzo Chigi. Il nume della commedia all'italiana, da lassù, illumini governanti e aspiranti a non essere (troppo) ridicoli.

 

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