NON CHIAMATELI (SOLTANTO) VIDEOGIOCHI - IL CAPOLAVORO DI HIDEO KOJIMA “DEATH STRANDING” SEMBRA SOTTOSTARE PIÙ ALLE REGOLE DEL CINEMA CHE A QUELLE DEL VIDEOGAME. C’È UNA STORIA INTENSA E POTENTE, UNA MUSICA STUPENDA E UNA SCENEGGIATURA INTELLIGENTE - TUTTE LE INQUADRATURE CONTANO E I SINGOLI FRAME PARTECIPANO ALLA NARRAZIONE - NELL’INDUSTRIA DELL’INTRATTENIMENTO I MURI SI ASSOTTIGLIANO E LE ARTI SI INFLUENZANO. E GLI ATTORI FANNO A GARA PER FARE I PROTAGONISTI NEI VIDEOGIOCHI - VIDEO

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DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE – DOPO L’ARRIVO DI “DEATH STRANDING” NULLA DI VIDEOLUDICO POTRÀ ESSERE COME PRIMA

https://www.dagospia.com/rubrica-40/videogiochi/dagogames-by-federico-ercole-ndash-dopo-rsquo-arrivo-ldquo-death-217849.htm

           

Death Stranding non è solo un videogioco, ma anche un film

Gianmaria Tammaro per www.lastampa.it

 

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Dopo le ore passate a piedi, da una parte all’altra dell’America, seduti su una moto a tre ruote, costretti a ripararsi da una pioggia che invecchia, che cosa resta di “Death Stranding”, e dell’esperienza che regala al videogiocatore? E soprattutto, ecco: è davvero questa la nuova frontiera dell’intrattenimento? Hideo Kojima, il creatore del gioco, ha una visione chiara, e il fatto che abbia deciso di circondarsi di attori di primo piano – Norman Reedus, Mads Mikkelsen, Lea Seydoux – e di registi – l’amico di sempre Nicolas Winding Refn, e Guillermo Del Toro, con il quale aveva collaborato per un altro videogioco, un horror, mai uscito – è abbastanza significativo.

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Quella che vediamo su schermo, davanti ai nostri occhi, è una storia intensa e potente, con tempi e toni precisi, scandita dalla stupenda musica che suona in sottofondo (per buona parte del tempo, si tratta dei Low Roar) e forte di una sceneggiatura intelligente, non sempre perfetta, che però sembra sottostare più alle regole del cinema che a quelle del videogioco. Si predilige l’immagine, e come l’immagine viene vista e confezionata. Tutte le inquadrature contano, e contano come vengono mostrate le montagne, sullo sfondo, e le sagome in movimento. È la composizione dei singoli frame, più di ogni cosa, che partecipa alla narrazione.

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La richiesta che Kojima fa ai giocatori è semplice: fidatevi di me, fidatevi della storia che vi sto raccontando. E così, per le prime ore di gioco, non sappiamo molto del “Death Stranding”, della fine del mondo come lo conosciamo; sappiamo che siamo dei fattorini, costretti a consegnare pacchi per riunificare gli Stati Uniti. Lorenzo Fantoni, su queste stesse pagine, ha già scritto del gioco, e si è soffermato in modo preciso sugli elementi più importanti. Quindi questa non è una recensione. Ma una riflessione.

 

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Lo spunto che offre “Death Stranding”, e che offrono le tante, innumerevoli citazioni cinematografiche che sono al suo interno (c’è un po’ di “Salvate il soldato Ryan”, a un certo punto; poi si arriva anche ad “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola), è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Sono anni che la produzione videoludica si sta avvicinando, per dimensioni e per portata, a quella cinematografica. Pensiamo ai costi, ai numeri, ai soldi – in termini di budget e di incassi – raggiunti.

 

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Poi c’è la trasformazione dell’esperienza, aiutata ora da una tecnologia più avanzata, più precisa, che permette agli sviluppatori di ricreare mondi interi, di avvolgere i videogiocatori in una storia credibile, con volti veri, e interpretazioni sincere. In “Death Stranding”, sia il lavoro che fanno gli attori che quello che fa Kojima come regista non hanno nulla da invidiare a quanto viene fatto sul grande schermo. E dunque non è un’esagerazione dire che questo non è solo un grande, grandissimo videogioco (di nuovo: leggete Fantoni); ma anche un grande, grandissimo film.

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La partecipazione dello spettatore-videogiocatore, qui, non è più passiva; è attiva, utile non solo ai fini della trama e del procedere del gioco, ma anche, e banalmente, per la visione artistica del regista-autore. Piccolo paradosso: non sono le cutscene, ovvero le scene in computer grafica, dove il videogiocatore non può fare nulla, quelle più cinematografiche in “Death Stranding”. Sono le lunghe sequenze in cui il videogiocatore può agire e prendere decisioni, e in cui la luce e il taglio dell’immagine sono progettate con attenzione e sono utili, addirittura fondamentali, per raccontare, o per mostrare, qualcosa di specifico. Esempio pratico: i titoli di testa.

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Come ha scritto Francesco Serino su Multiplayer, “Death Stranding” non va visto come uno di quei giochi che hanno per obiettivo divertire; semmai, è uno di quei titoli che puntano a intrattenere, e a far vivere un’esperienza profonda al videogiocatore, un’esperienza che difficilmente lascia indifferenti. Passare così tanto tempo nei panni di un corriere, di uno che va in giro, che cammina, che deve scalare rocce, che deve curare il carico, è un modo per alienare il videogiocatore e, allo stesso tempo, per calarlo nell’ambientazione di gioco. C’è un mondo, ci sono dei personaggi, e c’è una dimensione precisa, enorme, sostenuta da pagine e pagine di scrittura, talvolta riportate nero su bianco, come lettere o testimonianze di personaggi non giocanti (lo youtuber Sabaku, nei suoi video, non perde occasioni per leggerle ad alta voce; e anche questo fa parte dell’esperienza di gioco). “Death Stranding” vive ogni attimo; vive anche quando viene messo in pausa, o cediamo alla voglia di vedere Sam, il protagonista, sotto la doccia. Vive delle piccole animazioni, e vive della fatica, della sofferenza, dei personaggi. Empatia, vicinanza, emozioni. Giocare e guardare, guardare per poi, al momento giusto, quando ci è possibile, intervenire.

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Kojima ha studiato i protagonisti di questa storia, ed è su di loro, più che su qualunque altra cosa, che ha puntato. Sembra assurdo, vista l’accuratezza delle ambientazioni, ma è così; e lo dimostrano le tante interazioni che ci sono, il modo in cui le informazioni vengono date al videogiocatore, il continuo tentativo di mettere in contatto le parti, di far nascere un’esperienza pura. Finché uniti, sopravviviamo. Se divisi, soccombiamo. Nel gioco, nella sua realtà; ma pure nel multiplayer, dove tutti sono invitati ad aiutarsi a vicenda. “Death Stranding”, ma anche “Red Dead Redemption 2”, “God of War” e “Detroit”, sono il prossimo gradino di una scala ampissima, fatta di più rampe e di più tornanti, che è l’evoluzione dell’esperienza audiovisiva.

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Non è l’ennesimo tentativo di legittimare un medium avvicinandolo ad un altro; i videogiochi sono una cosa, hanno la loro indipendenza e la loro identità. Sono un linguaggio potente e fondamentale nella vita, e più in generale: nella cultura, di tante, tantissime persone. Questo è semplicemente il tentativo di mostrare come, con l’avanzare dei mezzi, del tempo, con la crescita e la maturazione dei videogiocatori (e, di contro, degli spettatori), i linguaggi tendano a toccarsi e a sovrapporsi, e come l’obiettivo ultimo, che è quello di raccontare storie e di regalare emozioni, sia sempre più condiviso.

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Anche nel mondo dell’intrattenimento, i muri si stanno assottigliando e le arti, tra loro, cominciano a influenzarsi; e in questo, forse, non c’è niente di male; in questo, anzi, si vede la capacità che ha una società di crescere. E i videogiochi come “Death Stranding”, autorialità pura, regia illuminata, un cast di prim’ordine, dove il videogiocatore non s’immedesima con l’attore famoso, ma con il personaggio che interpreta, è una sintesi perfetta di quest’incredibile trasformazione.

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