LA MORALE MAFIOSA: “MEGLIO UNA FIGLIA MORTA CHE SEPARATA” – DUE CONDANNE A 30 ANNI DI GALERA PER IL COLD CASE DI LIA PIPITONE: UCCISA A 25 ANNI CON L’ASSENSO DEL PADRE, “UOMO D’ONORE” DEL QUARTIERE ACQUASANTA DI PALERMO CHE VENNE ASSOLTO DAL GENERO – LA SVOLTA DOPO 35 ANNI…

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Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”

 

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Due condanne a trent' anni di galera hanno appena chiuso una storia di mafia di 35 anni fa. Un cold case che risale al 1983, quando i Corleonesi guidati da Totò Riina avevano da poco fatto saltare in aria il giudice Rocco Chinnici, Masino Buscetta non aveva ancora svelato le regole di Cosa nostra e per scalare le gerarchie interne a Palermo si ammazzava al ritmo di oltre cento morti all' anno.

 

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Tra cui bisogna contare, adesso, anche Lia Pipitone, uccisa a 25 anni d' età; e forse il suo amico Simone, morto il giorno dopo in un probabile finto suicidio. Una storia che non ha a che fare con guerre fra clan o intrighi di potere criminale, ma con la morale mafiosa: un boss che si rispetti non può tollerare chiacchiere sulla vita sentimentale di sua figlia. Per questo morì Lia, donna indipendente, moglie in crisi col marito e madre di un bambino di appena quattro anni.

 

Assassinata con l' assenso del padre, Nino Pipitone, «uomo d' onore» del quartiere Acquasanta, costretto dai suoi capi a rispettare le regole; condannato per mafia ma assolto per l' omicidio della figlia, nel 2004, anche grazie alle «mendaci dichiarazioni» di Gero Cordaro, il marito di Lia, che non volle rivelare le intimazioni del suocero.

 

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Lia s' era sposata giovanissima con Gero proprio per sfuggire alla segregazione a cui la costringeva il padre, e poco dopo era nato Alessio.

 

Poi però la relazione col marito cominciò a starle stretta, e nel quartiere si vociferava che dietro la sua amicizia con Simone Di Trapani ci fosse qualcosa di più. Nient' altro che dicerie, ma i boss stabilirono che era troppo: Nino Madonia, capo del mandamento mafioso in cui ricade l' Acquasanta, decise di passare all' azione.

 

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«Secondo le regole di Cosa nostra convocò Nino Pipitone - ha raccontato da ultimo il pentito Francesco Di Carlo - al quale comunicò la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia, circostanza a cui Pipitone non si sottrasse nel rispetto della mentalità di Cosa nostra che condivideva in pieno.

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Poi, sempre secondo le regole, convocò i Galatolo (capimafia del quartiere, ndr); in quel periodo responsabile della famiglia era Vincenzo, al quale affidò l' esecuzione materiale dell' omicidio».

 

L' agguato a Lia fu organizzato simulando una rapina, mentre parlava a un telefono pubblico all' interno di un negozio; e l' indomani Simone Di Trapani volò per quattro piani dalla finestra di casa.

 

Morti rimasti senza colpevoli dopo l' assoluzione di Nino Pipitone, chiamato in causa da alcuni pentiti. Ma nel 2012 le dichiarazioni di nuovi collaboratori di giustizia convinsero il pubblico ministero Francesco Del Bene a riaprire il caso.

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Nel frattempo Pipitone era morto, e Gero Cordaro tornò dal magistrato per ammettere che in passato aveva mentito, come gli aveva chiesto di fare il suocero-boss: «Durante il processo, prima della mia deposizione, con tono risentito e autoritario mi disse che aveva seri problemi di salute e pertanto avrei dovuto dichiarare il meno possibile altrimenti lui dal carcere non sarebbe più uscito».

 

Cordaro si adeguò, e oggi spiega: «Al processo dissi che ricordavo poco o niente, e in effetti io potevo riferire solo sospetti e supposizioni. Inoltre volevo salvaguardare Alessio. Avevo deciso di alzare una barriera di protezione e vivere la morte di Lia come un fatto privato, e all' epoca mi comportai di conseguenza».

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Poi qualcosa è cambiato: «Alessio è diventato grande, altri collaboratori hanno aggiunto nuovi particolari, io ho sviluppato una diversa coscienza antimafia e ho deciso di parlare».

 

Assistito dall' avvocato Nino Caleca, ha raccontato al pm le liti tra Nino Pipitone e la figlia colpevole di volersi allontanare temporaneamente dal marito, con la brusca risposta del boss: «Meglio una figlia morta che separata».

 

E ha aggiunto che uno o due giorni prima di essere uccisa Lia gli chiese di prendersi cura di Alessio se le fosse successo qualcosa.

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Le rivelazioni dei pentiti (tra cui alcuni molto noti come Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Francesco Marino Mannoia) hanno fatto il resto, insieme ai riscontri cercati e trovati.

 

Fino alla sentenza dell' altro giorno, che per l' avvocato Caleca ha un valore che va oltre le condanne di Madonia e Galatolo: «Significa ribaltare la mentalità mafiosa in una città che ancora ne è vittima.

 

Le rivendicazioni di libertà che Lia Pipitone ha pagato con la vita devono valere per tutte le donne. È stata una battaglia di emancipazione da regole che per essere imposte hanno portato un padre a lasciar uccidere la propria figlia, violando perfino le leggi della natura».

 

 

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