Estratto dell’articolo di Carlo Pizzati per “La Repubblica”
Tutti vincitori. Ma tutti perdenti. L’intero Pakistan ha perso le elezioni, checché ne dica il vero manovratore del potere, il generale Asim Munir a capo delle Forze Armate. Per rappacificare gli animi, dopo che in due giorni sono morte più di 50 persone in esplosioni, attacchi e sparatorie, Munir si è congratulato per come si sono svolte le elezioni: «Ora servono mani stabili dal tocco guaritore per formare un governo».
Ma a parte le vittime, come fanno notare Unione europea, Gran Bretagna e Stati Uniti, qui servono inchieste sui possibili brogli. Denunciata da più parti la sospensione dei collegamenti dei cellulari «per questioni di sicurezza». Che il governo poi ha detto essere la causa di misteriosi ritardi nello spoglio, forse per coprire un tentativo di falsificazioni.
Dal carcere, l’ex primo ministro Imran Khan canta vittoria. La “lista indipendente” legata al suo Partito Tehreek-e-Insaf (Pti) ha 101 parlamentari, in una gara che ricorda un incontro di box in cui uno dei pugili ha le braccia legate, ma vince comunque. Il Pti non ha potuto usare il simbolo della mazza da cricket riconoscibile per il 40 % della popolazione analfabeta. Gli è stato proibito di presentarsi come partito. La sua leadership è stata incarcerata, torturata, minacciata. I sostenitori arrestati alle manifestazioni. Per aggirare la censura del carcere, Khan ha diffuso un video prodotto con l’Intelligenza artificiale: «Sono orgoglioso di voi», dice l’avatar di Khan, «siete accorsi in massa e avete vinto. Ora dovete proteggere il risultato». […]
In un comizio, l’ex premier e attuale beniamino dei militari, Nawaz Sharif, reclama anche lui la vittoria, nonostante la sua Lega musulmana abbia solo 73 parlamentari, lontani dai 136 necessari per formare un governo: «Siamo il primo partito in Pakistan» assicura. Tecnicamente ha ragione perché la “lista indipendente” non è un partito, anche se entro 24 ore potrà diventarlo, secondo il portavoce di Khan. «Ma non siamo riusciti ad avere la maggioranza per andare al governo», spiega Sharif, «quindi ora aprirò le consultazioni per una coalizione».
Il suo primo interlocutore sarà Bilawal Zardari Bhutto, figlio della premier Benazir Bhutto assassinata nel 2007. Il suo Partito popolare per il Pakistan (Ppp) ha 54 seggi parlamentari. Tanti, ma non si arriva a 136 sommandoli a quelli di Sharif. Bisognerà forse aprire ai quarti qualificati, i centristi del Movimento Muttahida Qomi, che hanno 17 parlamentari. Questa non è la stabilità auspicata. Non è ciò di cui il Pakistan ha bisogno. Tutto il contrario.
L’estate scorsa questa nazione così travagliata, con inflazione al 40%, scarsità di carburante, blackout costanti ed economia con crescita debole era sull’orlo del default. S’è salvato grazie ai soccorsi del Fondo monetario internazionale che, a fronte di garanzie su una rappresentatività democratica, ha sborsato 3 miliardi di dollari. Dureranno fino a marzo. Poi bisognerà rinegoziare. Per questo ci vuole un governo forte in grado di prendere impegni credibili.
E non una coalizione con un leader con un quarto dei voti, costretto a mediare tra interessi diversi, che ha contro quasi mezzo parlamento guidato da Khan. A questo caos pakistano, s’aggiunge l’accerchiamento senza precedenti dei Paesi confinanti. I talebani pakistani che nel 2014 furono cacciati in Afghanistan, con il ritorno al potere degli studenti coranici a Kabul nel 2021, ora colpiscono nel Nord-ovest con armi sofisticate abbandonate dagli americani. […]