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GIGI MERONI, 24 ANNI PER SEMPRE – MEZZO SECOLO DOPO LA SUA SCOMPARSA L’ITALIA BACIA LO SCARPINO DELLA “FARFALLA GRANATA” MA LA STAMPA IN VITA NON GLI HA MAI RISPARMIATO NULLA: “PERSONAGGIO SQUALLIDO, UN PAGLIACCIO” - MIHAJLOVIC: “MI SAREBBE PIACIUTO ALLENARLO” - IL CASO MERONI CHE CAMBIO’ IL DIRITTO PRIVATO – VIDEO

GIGI MERONI NON E’ MORTO

Piero Vietti per il Foglio

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Il 15 ottobre del 1967 il talento più puro e inafferrabile del calcio italiano venne travolto da un'automobile mentre attraversava un corso nel centro di Torino. Il suo corpo, sfigurato, venne portato di corsa all'ospedale. Poche ore dopo un medico uscì dal pronto soccorso e – senza dire niente – allargò le braccia trattenendo le lacrime. Luigi "Gigi" Meroni era morto.

 

L'urlo di Cristiana, compagna e promessa sposa di Gigi, rimbomba ancora oggi nelle orecchie di chi quella notte era in quel pronto soccorso a sperare contro ogni speranza. Alla camera ardente sfilarono centinaia di persone, inconsolabile il suo compagno di squadra e amico Nestor Combin, incredulo Poletti, soltanto urtato dalla stessa auto che aveva travolto Meroni. Ai funerali c'era quasi tutta la città, e c'eravamo anche tutti noi tifosi del Toro che ancora non c'eravamo. Un pianto unico, grandissimo e orgoglioso. Perché quella che per un tifoso di qualsiasi altra squadra sarebbe sfiga, per un granata fu una tragedia che rafforzò un popolo.

 

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Gigi Meroni è nato di nuovo quel 15 ottobre del 1967 per non morire mai più nella memoria di chi vuole bene a quella maglia. Imprendibile, geniale e pazzesco, Meroni giocava con il 7 sulla schiena, i calzettoni abbassati, la maglia fuori dai pantaloncini, i capelli lunghi e la barba. Dipingeva quadri e disegnava vestiti, girava con una gallina al guinzaglio e si divertiva a intervistare i passanti chiedendo loro cosa ne pensavano di Gigi Meroni, sicuro che in quella società non ancora rintronata dalle televisioni difficilmente lo avrebbero riconosciuto.

Secgli tu!

 

 

C'è un gol che dice tutto di Meroni. Lo segnò all'Inter, a San Siro. I nerazzurri non perdevano in casa da mesi, e la notte prima Meroni era stato sveglio fino all'alba, sotto la pioggia, a discutere con Cristiana. Quando la mattina dopo il suo compagno di stanza Natalino Fossati gli chiese come avrebbe fatto a trovare le forze per giocare dopo una nottata insonne Meroni sorrise: "Vedrai oggi che cosa ti combino", rispose. Quando stoppò quel pallone dentro l'area, tutti pensarono che avrebbe perso l'equilibrio. Gli chiudeva lo specchio della porta un certo Facchetti, non uno qualsiasi. Gigi barcollò, un metro fuori dall'area piccola, vicino all'angolo sinistro. Face due passi indietro, e poi lasciò partire un pallonetto di destro che superò Facchetti e andò a infilarsi nell'angolino di destra. Il portiere dell'Inter si limitò a guardare. Una parabola che non si poteva spiegare, eppure vera. Come la sua vita.

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Non è possibile raccontare Meroni in poche righe. Quando nell'estate del 1967 stava per passare alla Juventus i tifosi del Torino scesero in piazza a protestare, e gli operai della Fiat con il cuore granata cominciarono a boicottare la catena di montaggio: erano i giorni in cui veniva lanciata la nuova 128, e tutte uscivano dalla fabbrica senza dei pezzi, oppure rigate, e con un volantino sul cruscotto: "Agnelli, giù le mani dal Torino". Si dice che fu lo stesso presidente del Toro, Orfeo Pianelli, a organizzare segretamente la protesta: le sue aziende lavoravano per l'indotto Fiat, e lui non avrebbe potuto rifiutare un'offerta di Agnelli per un suo giocatore. "Per fortuna sono finito sulla sponda giusta di Torino", aveva detto Gigi qualche anno prima, appena giunto al Toro. E ci rimase.

 

Quel 15 ottobre del 1967 i granata vinsero 4-2 in casa contro la Sampdoria. Combin segnò tre gol, e scherzando diceva che avrebbe dovuto tenersene qualcuno per il derby della domenica successiva. "Al derby ne farai altri tre", gli disse Gigi. Poche ore dopo Meroni se ne andò per sempre, unendo le tragedie passate e future del Torino: l'uomo al volante dell'auto che lo uccise sarebbe diventato presidente del Torino trent'anni dopo, contribuendo al fallimento della società nel 2006; il pilota dell'aereo che trasportava il Grande Torino e si schiantò sulla collina di Superga nel 1949 si chiamava Luigi Meroni.

L'ultima foto di Meroni da vivo, la maglia granata addosso, è una profezia: il Torino ha appena battuto la Sampdoria, ma lui lascia il campo a capo chino, gli occhi tristi a guardare qualcosa che nessuno in quell'istante poteva afferrare.

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Sette giorni dopo si giocò il derby in un clima surreale: lo stadio, commosso e impietrito, era un solo cuore granata gonfio di lacrime. La Juventus non riuscì nemmeno a reagire. Combin fece tre gol, come gli aveva detto Gigi sette giorni prima. Il quarto gol lo segnò una giovane riserva, Alberto Carelli, che quel giorno indossava la maglia numero 7. Dopo il gol, gli occhi pieni di pianto, alzò il pallone verso il cielo, per l'ultimo saluto a Gigi. Quando morì, Meroni aveva 24 anni. Li ha ancora. Per sempre.

 

 

MERONI CELEBRATION - L’ITALIA BACIA LO SCARPINO DELLA “FARFALLA GRANATA” MA LA STAMPA IN VITA NON GLI HA MAI RISPARMIATO NULLA: “PERSONAGGIO SQUALLIDO, FUMETTISTICO” - MIHAJLOVIC: “MI SAREBBE PIACIUTO ALLENARLO” - IL CASO MERONI CHE CAMBIO’ IL DIRITTO PRIVATO

 

Francesco Persili per Dagospia

Aveva i capelli lunghi e un amore “proibito”. Amava i Beatles e i Rolling Stones, l’arte e la libertà. Giocava come tutti quelli che si credono poeti, e magari un po’ lo sono, all’ala destra. Un settebello, un genio ribelle. Un simbolo che racconta tante storie ed una storia nuova, Gigi Meroni, la farfalla granata.

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Ebbe un volo breve ed una fine tragica. Il 15 ottobre 1967 l’attaccante del Torino morì travolto da un'auto mentre attraversava Corso Re Umberto a Torino. Fu gettato sulla corsia opposta ed investito da un'altra vettura guidata da un ragazzo che aveva il suo poster in camera e portava i capelli proprio come lui.

Si chiamava Attilio Romero, sarebbe diventato un non indimenticabile presidente di un piccolo Toro. Quella sera sporca di pioggia e orfana di stelle rubò ad una generazione il suo mito e alla sua epoca un altro sogno beat. “Era fortissimo. Mi sarebbe piaciuto molto allenarlo, un po’ meno affrontarlo come avversario…”, ha ammesso Mihajlovic a 90°Minuto.

Cinquanta anni dopo è un tripudio di celebrazioni. Troppo comodo, troppo facile. La sua figurina che, secondo una letteratura sterminata attraversa tutti i colori dell’irregolarità, rischia di essere confinata nella ridotta del calciatore naif col rinforzino retorico della citazione breriana: “Era il simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”. Ecco, appunto. Si precipita nel conformismo di maniera nel tratteggiarlo mezzo secolo dopo come il quinto Beatle, il Best italiano, ma senza eccessi etilici.

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Un professionista serio, sempre puntuale agli allenamenti, Gigi Meroni non è un manifesto della trasgressione pallonara ma una pennellata di fantasia, un dribbling stretto ai benpensanti, una fuga in avanti dalle ipocrisie e dai bigottismi, un pallonetto impossibile, come quello che gelò Facchetti e San Siro.

Eppure la stampa (che oggi ne esalta le gesta e l’esprit pre-sessantottino) è stata quella che non gli ha mai perdonato nulla. Gli hanno dato ogni tre per due del “pagliaccio” e scatenato forsennate campagne contro quello che definivano “uno squallido personaggio”. Giorgio Tosatti spese parole di fuoco contro chi lo aveva dipinto come “un personaggio quasi fumettistico” concludendo amaro: “Pochi lo hanno apprezzato in vita e risparmiato in morte”. Meroni ha pagato ogni sua scelta, anche quella di portare i capelli lunghi che non piacevano all’allora ct Mondino Fabbri che lo mise spalle al muro: “Se non li tagli, addio Nazionale”.

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La sua storia continua ad avere il passo leggero di un ragazzo che amava la vita. Ascoltava ogni genere di musica. Dipingeva quadri (che una volta smesso con il calcio avrebbe voluto esporre), scriveva poesie, disegnava vestiti che poi indossava e andava in giro con una gallina al guinzaglio. Viveva in una mansarda a Piazza Vittorio con la bella Cristiana, la ragazza del luna park, di cui si innamorò follemente “quando il divorzio era ancora peccato e l’adulterio, un reato da codice penale”. Lei, già sposata, mollò il marito per lui. Cristiana e Gigi, scandalosamente amanti. Meroni non ebbe pace. In vita e anche dopo.

La Chiesa si oppose al suo funerale e criticò aspramente il cappellano del Torino per aver celebrato il funerale di un "peccatore pubblico" con riti religiosi. Con le sue finte ha messo a sedere l’Italia bacchettona, ha scritto pagine nuove nella storia del calcio e del diritto privato (in particolare nell’interpretazione del danno ingiusto per responsabilità extracontrattuale). Fuori da qualsiasi tentativo di omologazione, lontano da ogni etichetta e da qualsiasi retorica. Libero, leggero e imprendibile. Come solo certi poeti sanno essere.

 

 

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