
“AVEVO COMPAGNI CHE VENIVANO A SCUOLA CON LA PISTOLA NELLO ZAINO, AI MIEI GENITORI CHIEDEVANO IL PIZZO, LA BICI MI HA SALVATO” – LO "SQUALO" VINCENZO NIBALI, IL CICLISTA ITALIANO PIU’ VINCENTE DELLA STORIA, RIFLETTE SULLA STRAGE DI MONREALE E RACCONTA LA SUA INFANZIA A MESSINA – “ERO UN RAGAZZO DI STRADA CHE POTEVA ANCHE PRENDERNE UNA BRUTTA, DI STRADA. LASCIAI LA SICILIA SENZA RIMPIANTI. LE IMMAGINI DI CAPACI MI SONO RIMASTE DENTRO PER ANNI” – "IL DOPING? SONO STATO PEDINATO, MI HANNO APERTO LA MACCHINA PER TROVARE PROVE CHE NON ESISTEVANO. MA IO HO PERSO TANTO PER COLPA DEI CORRIDORI DOPATI" – E SULL’ORO OLIMPICO SVANITO PER UNA CADUTA… - VIDEO
Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera - Estratti
«Ero un carusu dannificu , un bambino che combinava danni e attirava guai come un parafulmine. Una vetrata pericolante? La tiravo giù a sassate.
Ho fatto esplodere con i petardi metà delle cassette delle lettere del quartiere Boccetta, il mio, ho rischiato di schiantarmi in discesa con la macchina a pedali, ho lanciato un motorino contro il muro mancando di poco una passante. Un ragazzino di strada che poteva anche prenderne una brutta, di strada. Ma grazie a mio padre e alla bicicletta ne ho imboccate altre, tutte in salita: il santuario di Dinnammare a picco sullo Stretto, Novara di Sicilia, l’Etna che mi ha fatto capire che nella vita sarei stato ciclista».
Assieme a Coppi e Bartali avvolti in una luce mitologica e a Felice Gimondi, Vincenzo Nibali, 40 anni, è il ciclista italiano più vincente della storia. Ha conquistato tutti e tre i grandi Giri (quello d’Italia due volte), due delle cinque classiche-monumento (una terza gliel’hanno scippata, poi vedremo come) e cinquanta altre grandi corse.
Quali le cattive strade per un adolescente messinese negli anni Novanta, Vincenzo?
«Leggendo della sparatoria di Monreale, dei tre giovani uccisi da un diciannovenne armato, ho pensato a quant’è stretto il bivio tra le direzioni che puoi prendere. Messina non era una città mafiosa o particolarmente violenta ma avevo compagni che venivano a scuola con la pistola nello zaino».
Niente mafia.
«Cose grosse non ce n’erano. Le immagini di Capaci mi sono rimaste dentro per anni e passando accanto alla voragine sull’autostrada ho tremato. Ma il pizzo sì, c’era».
Esperienza diretta?
«La cartoleria dei miei genitori. I pizzini che ti invitavano a pagare, la bottiglia di benzina fatta brillare dietro la serranda, la casa messa a soqquadro come avvertimento».
Come se ne esce?
«Testa alta, schiena dritta».
Quando arriva la bici nella sua vita?
«A dodici anni, con mio padre e i suoi amici cicloturisti. Sempre in salita, ché da Messina si esce solo scalando».
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Poi l’isola cominciò a starle stretta.
«Divoravo Il Mondo del Ciclismo , il settimanale con i risultati delle gare nazionali e vedevo tanti siciliani in Toscana. Volevo essere come loro. A quindici anni vinsi una corsa a Siena e decisi di non tornare più a casa».
Senza voltarsi indietro?
«Sì. Amo la Sicilia, ma mai nostalgia, mai un rimpianto, al contrario di tanti compagni, di tanti emigranti. Sarà che ero un ragazzino poco affettuoso, non abbracciavo, non cercavo il contatto fisico con i genitori. Forse questa freddezza, che per altri versi ho sofferto, mi ha aiutato a rendere più leggero il distacco».
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A che scelte si riferivano?
«Al doping, se ne parlava tanto in quegli anni. Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto: in quel momento il ragazzino dannificu è svanito».
Primo anno da professionista, la spediscono alla terribile Liegi-Bastogne-Liegi.
«Metà dei partenti si ritirò, io arrivai ultimo e staccato. Una grande lezione».
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«Credo nei siciliani che parlano poco, che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono», scriveva Leonardo Sciascia.
«Parlavo poco o niente e non facevo proclami nemmeno sotto tortura. Ora mi rendo conto della bolla in cui vivevo: pensavo solo alla bici e quando mi affacciavo su un mondo a me sconosciuto mi chiudevo a riccio».
Dal 1965 a oggi solo Gimondi, Pantani e Nibali hanno vinto il Tour de France.
«La più grande gioia della carriera che per un anno si è trasformata in un incubo. Ero travolto, schiacciato da popolarità, richieste, tifosi e giornalisti. Quando passeggiavamo con la bambina in carrozzina ci assalivano. Con mia moglie Rachele volevamo solo scappare da tutto e tutti. Poi ci siamo abituati ma è solo quando ho smesso di correre che ho cominciato davvero a vivere».
Nel 2012 lei arriva secondo alla Liegi, battuto da un carneade kazako (Maksim Iglinskij) che poco dopo venne trovato dopato.
«Non mi sono mai posto la domanda di quanto ho perso per colpa del doping, probabilmente tanto. Alla Vuelta me la giocai con tale spagnolo Mosquera, poi radiato. E se avesse vinto lui e non l’avessero scoperto?».
Lei ha avuto capitani, gregari, compagni che si sono dopati.
«Andavano alle corse come si andava in guerra, era un fatto culturale per quella generazione. Detto questo, se non volevi non ti dopavi: la generazione successiva ha cambiato il modo di pensare e se adesso c’è un ciclismo pulito credo sia anche merito nostro».
Eppure i sospetti c’erano.
«Vincevo, ero italiano e il boss della mia squadra, Vinokourov, aveva un passato ambiguo come altri manager. Sono stato pedinato, mi hanno aperto la macchina e controllato il telefono e sono sicuro che mi siano entrati anche in casa per trovare prove che non esistevano. I ciclisti erano bersagli facili. Mai nella vita mi sono dopato e soprattutto mai ho pensato di farlo. Mi hanno controllato un milione di volte, possono testare le provette tra cent’anni. A testa alta, sempre».
(…)
Nel 2016 lei perse un oro olimpico già vinto a pochi chilometri dall’arrivo, cadendo in una curva dissestata.
«A spostare la ruota un centimetro di troppo verso il burrone sono stato io, consapevolmente, per andare più forte. Mio il rischio, mie colpa e sconfitta. Succede».
E adesso, Vincenzo?
«Faccio mille cose, tra cui promuovere il Giro d’Italia. Ma soprattutto, vivo. In aprile ho viaggiato in Sicilia con la famiglia per mostrarla bene a Emma e Miriam, le bambine. A due anni dal ritiro, il primo viaggio da turista della vita: Cefalù, la valle dei Templi di Agrigento, la Villa del Casale di piazza Armerina. Tornando a casa siamo passati davanti al Museo regionale ed Emma mi ha chiesto cosa ci fosse da vedere. C’è Antonello, le ho detto, un gigante della storia dell’arte. Quando la vedi tramite Antonello o dalle grandi foreste dei Peloritani, Messina è davvero “ u megghiu posttu nto munnu ”».