UNO SCONVOLGENTE LIBRO-INTERVISTA DI LICIA PINELLI CONTRO LUIGI CALABRESI
"MIO MARITO? PICCHIATO, CREDUTO MORTO E BUTTATO GIÙ. LO SEPPI DAI GIORNALISTI"
"ANNI FA, SE AVESSI INCONTRATO LA VEDOVA, LE AVREI PARLATO. OGGI NON PIÙ"
"MIO MARITO? PICCHIATO, CREDUTO MORTO E BUTTATO GIÙ. LO SEPPI DAI GIORNALISTI"
"ANNI FA, SE AVESSI INCONTRATO LA VEDOVA, LE AVREI PARLATO. OGGI NON PIÙ"
Stefano Cappellini per "Il Riformista"
«L'hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l'hanno colpito al termine dell'interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei cinque agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi».
Sono parole di Licia Pinelli, vedova di Pino, ferroviere, anarchico, precipitato nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1969 da una finestra al quarto piano della Questura di Milano dove era stato trattenuto in quanto (ingiustamente) sospettato di aver partecipato all'organizzazione della strage di piazza Fontana, 17 morti per una bomba alla filiale della Banca dell'Agricoltura, avvenuta quattro giorni prima.
A raccogliere l'intervista alla signora Pinelli, oggi ottantaduenne, sempre restia a concedersi ai media, è un libro in uscita a ottobre, "La piuma e la montagna. Storie degli anni Settanta", edito da Manifestolibri, firmato dai giornalisti Sergio Sinigaglia e Francesco Barilli e introdotto dallo storico Giovanni De Luna. Oltre al caso Pinelli vi sono ricostruite le storie di una dozzina di militanti della sinistra uccisi nel corso del lungo Sessantotto italiano.
Proprio da "La piuma e la montagna", come Adriano Sofri ha spiegato nella lettera inviata l'altroieri al "Riformista", sono tratti alcuni spunti dell'articolo che l'ex leader di Lotta continua ha scritto sul "Foglio" la scorsa settimana, deplorando la rimozione di una vittima scomoda come Pinelli e riaprendo il dibattito sul caso Calabresi, sulla definizione di terrorismo e sulla temperie di quegli anni.
«So che Licia Pinelli dice che non vorrà mai leggere il libro di Mario Calabresi», ha assicurato Sofri riferendosi a "Spingendo la notte più in là", fortunato volume in cui il giornalista Mario Calabresi ha tradotto in lessico familiare la storia di sua padre, Luigi, commissario ucciso a Milano nel maggio del 1972 proprio per "vendicare" Pinelli (com'è noto, Sofri, che continua a proclamarsi innocente, per quell'omicidio è stato condannato come mandante insieme ad altri militanti di Lotta continua).
«No. Non voglio leggerlo - spiega in effetti la vedova Pinelli a Sinigaglia - non m'interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo». Secondo la signora Licia, che in tutti questi anni ha continuato a vivere a Milano, non c'è riconciliazione possibile tra le memorie e gli affetti di quelle che pure sono a pari titolo due vittime di quegli anni: «A volte penso - dice - che c'è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C'è una distinzione netta, fra noi».
La parte più dura e serrata del racconto di Licia Pinelli è quella in cui vengono ricostruite le ore della notte tra il 15 e il 16 dicembre, quando la storia del paese e quella della famiglia Pinelli si intrecciano una volta per tutte: «Vengono a bussare da me verso l'una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. (.) Sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo quattro piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l'impressione di farsi forza l'un altro, cercavano le parole per dirmelo: "Sembra che suo marito sia caduto da una finestra". Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura.
Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c'erano due giornalisti alla mia porta, gli riferii cosa m'avevano detto, chiesi perché non m'avevano avvertito. "Sa, signora, noi abbiamo molto da fare", mi rispose. Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all'ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa.».
Il racconto continua così: «Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell'Università Cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull'Europeo), e qualcun altro ancora. Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: "Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto". "Va bene", risposi, "ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti"».
Nel giugno del 1971 la vedova Pinelli denunciò Calabresi e gli agenti presenti agli interrogatori cui era sottoposto il marito fra il 12 ed il 15 dicembre per omicidio volontario: il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio mandò avvisi di reato a tutti i denunciati, ma l'inchiesta fu chiusa con il proscioglimento e la famigerata spiegazione del «malore attivo» quale causa del volo mortale: «Quando succede un fatto del genere - commenta la vedova - che vede coinvolti elementi delle forze dell'ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova. (.) Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l'avrebbe mai fatto, era un'eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l'avrebbe mai fatto».
Così la vedova Pinelli. Nell'introduzione al volume De Luna interviene su un altro dei punti chiave del dibattito rilanciato dall'intervento di Sofri, il presunto legame tra il terrorismo stragista e l'escalation del partito armato. De Luna conferma la tesi di Sofri sul ruolo giocato dalle cosiddette "stragi di Stato" nell'armare la mano degli assassini politici: «Proprio nei mesi a cavallo di Piazza Fontana - scrive - nelle discussioni interne ai gruppi della sinistra extraparlamentare cominciò a farsi strada un rovesciamento di posizioni: non bastava protestare contro gli eccidi dello Stato, ma bisognava prevenirli; se lo Stato "uccideva" Pinelli, bisognava impedire che questo si ripetesse conquistando l'iniziativa proprio sul terreno strategicamente decisivo per lo Stato del "monopolio della violenza". Sulle colpe e sulle omissioni dello Stato si fondò quindi l'unica vera fonte di legittimazione invocata da chi optò per un'interpretazione offensiva della violenza, proponendosi sia come vendicatore che come giustiziere».
Dagospia 19 Settembre 2008
«L'hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l'hanno colpito al termine dell'interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei cinque agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi».
Sono parole di Licia Pinelli, vedova di Pino, ferroviere, anarchico, precipitato nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1969 da una finestra al quarto piano della Questura di Milano dove era stato trattenuto in quanto (ingiustamente) sospettato di aver partecipato all'organizzazione della strage di piazza Fontana, 17 morti per una bomba alla filiale della Banca dell'Agricoltura, avvenuta quattro giorni prima.
A raccogliere l'intervista alla signora Pinelli, oggi ottantaduenne, sempre restia a concedersi ai media, è un libro in uscita a ottobre, "La piuma e la montagna. Storie degli anni Settanta", edito da Manifestolibri, firmato dai giornalisti Sergio Sinigaglia e Francesco Barilli e introdotto dallo storico Giovanni De Luna. Oltre al caso Pinelli vi sono ricostruite le storie di una dozzina di militanti della sinistra uccisi nel corso del lungo Sessantotto italiano.
Proprio da "La piuma e la montagna", come Adriano Sofri ha spiegato nella lettera inviata l'altroieri al "Riformista", sono tratti alcuni spunti dell'articolo che l'ex leader di Lotta continua ha scritto sul "Foglio" la scorsa settimana, deplorando la rimozione di una vittima scomoda come Pinelli e riaprendo il dibattito sul caso Calabresi, sulla definizione di terrorismo e sulla temperie di quegli anni.
«So che Licia Pinelli dice che non vorrà mai leggere il libro di Mario Calabresi», ha assicurato Sofri riferendosi a "Spingendo la notte più in là", fortunato volume in cui il giornalista Mario Calabresi ha tradotto in lessico familiare la storia di sua padre, Luigi, commissario ucciso a Milano nel maggio del 1972 proprio per "vendicare" Pinelli (com'è noto, Sofri, che continua a proclamarsi innocente, per quell'omicidio è stato condannato come mandante insieme ad altri militanti di Lotta continua).
«No. Non voglio leggerlo - spiega in effetti la vedova Pinelli a Sinigaglia - non m'interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo». Secondo la signora Licia, che in tutti questi anni ha continuato a vivere a Milano, non c'è riconciliazione possibile tra le memorie e gli affetti di quelle che pure sono a pari titolo due vittime di quegli anni: «A volte penso - dice - che c'è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C'è una distinzione netta, fra noi».
La parte più dura e serrata del racconto di Licia Pinelli è quella in cui vengono ricostruite le ore della notte tra il 15 e il 16 dicembre, quando la storia del paese e quella della famiglia Pinelli si intrecciano una volta per tutte: «Vengono a bussare da me verso l'una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. (.) Sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo quattro piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l'impressione di farsi forza l'un altro, cercavano le parole per dirmelo: "Sembra che suo marito sia caduto da una finestra". Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura.
Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c'erano due giornalisti alla mia porta, gli riferii cosa m'avevano detto, chiesi perché non m'avevano avvertito. "Sa, signora, noi abbiamo molto da fare", mi rispose. Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all'ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa.».
Il racconto continua così: «Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell'Università Cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull'Europeo), e qualcun altro ancora. Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: "Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto". "Va bene", risposi, "ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti"».
Nel giugno del 1971 la vedova Pinelli denunciò Calabresi e gli agenti presenti agli interrogatori cui era sottoposto il marito fra il 12 ed il 15 dicembre per omicidio volontario: il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio mandò avvisi di reato a tutti i denunciati, ma l'inchiesta fu chiusa con il proscioglimento e la famigerata spiegazione del «malore attivo» quale causa del volo mortale: «Quando succede un fatto del genere - commenta la vedova - che vede coinvolti elementi delle forze dell'ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova. (.) Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l'avrebbe mai fatto, era un'eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l'avrebbe mai fatto».
Così la vedova Pinelli. Nell'introduzione al volume De Luna interviene su un altro dei punti chiave del dibattito rilanciato dall'intervento di Sofri, il presunto legame tra il terrorismo stragista e l'escalation del partito armato. De Luna conferma la tesi di Sofri sul ruolo giocato dalle cosiddette "stragi di Stato" nell'armare la mano degli assassini politici: «Proprio nei mesi a cavallo di Piazza Fontana - scrive - nelle discussioni interne ai gruppi della sinistra extraparlamentare cominciò a farsi strada un rovesciamento di posizioni: non bastava protestare contro gli eccidi dello Stato, ma bisognava prevenirli; se lo Stato "uccideva" Pinelli, bisognava impedire che questo si ripetesse conquistando l'iniziativa proprio sul terreno strategicamente decisivo per lo Stato del "monopolio della violenza". Sulle colpe e sulle omissioni dello Stato si fondò quindi l'unica vera fonte di legittimazione invocata da chi optò per un'interpretazione offensiva della violenza, proponendosi sia come vendicatore che come giustiziere».
Dagospia 19 Settembre 2008