ULTIMO CIAK A CINECITTA’? - STUDIOS OKKUPATI, ARIA DI SMOBILITAZIONE, LICENZIAMENTI IN VISTA E L’EX “FABBRICA DEI SOGNI” DIVENTA UN CINE-INCUBO - DEFICIT 2011 DI 3,5 MILIONI E ABETE, DE LAURENTIIS, DELLA VALLE E LA FAMIGLIA HAGGIAG VOGLIONO “DIFFERENZIARE” I REPARTI PRODUTTIVI - ESEMPIO: IL REPARTO SCENOGRAFIA DOVREBBE DEDICARSI AD ALLESTIRE CENTRI COMMERCIALI E PARCHI A TEMA! - LA REGOLA DI ABETE: “SE NON TROVO L’ACCORDO CON I SINDACATI SARÒ COSTRETTO A LICENZIARE”…

Michele Anselmi per www.ilvostro.it

«È chiaro il ragionamento?», ripete una cinquantina di volte, tra il mantra aziendale e il tic verbale, il presidente di Cinecittà Studios, Luigi Abete. L'atmosfera è tesa agli stabilimenti cinematografici sulla Tuscolana. Le maestranze, o perlomeno una parte consistente di esse, hanno deciso di continuare "l'okkupazione" fino al 31 luglio.

Nei fatti gli studi sono paralizzati, o quasi: martedì, hanno lavorato in 110 su 222, la metà, e non si vedono per ora sbocchi positivi alla vertenza. Mentre sale il nervosismo. Per dire: c'era la polizia davanti alla Casa del cinema, ieri mattina, mercoledì, per evitare nuove tensioni.

Dentro, nel fresco della sala centrale, Abete ha sostenuto un lungo monologo davanti alla stampa per ribadire la bontà del suo piano industriale di rilancio. Pragmatico e colorito, parlando alla sua maniera, anche con una certa brutalità padronale.

«La soluzione quale sarà? La nostra. Oppure dovremo licenziare 50 persone. Siamo di fronte a una sagra del conformismo e dell'ignoranza, a operazioni di piccolo cabotaggio sindacale. Bisogna smettere di credere alla favole, non esiste "una cricca Abete", figuriamoci, anzi querelo chi si azzarda ancora a scriverlo. Ricordatevi: Cinecittà a metà degli anni Novanta era un bubbone abbandonato».

Fuori i lavoratori, non tanti ma combattivi, urlano slogan come «Cinecittà non si tocca / la difenderemo con la lotta» attorno a uno striscione appeso agli alberi che recita «Salviamo il cinema - Cinecittà non deve morire». Più in là, il coperchio di una cassa da morto in miniatura è immerso in una piscinetta di gomma per bambini, un cartonato con il disegno di un albergo.

A evocare il temuto hotel per ospitare le potenziali troupe straniere, in realtà a 3 stelle e non a 5, che dovrebbe nascere su alcuni terreni non utilizzati, anzi in abbandono, insieme a un nuovo teatro di posa grande quanto il "mitico" 5 che fu di Fellini, una serie di uffici e camerini, un parcheggio per un migliaio di auto e il cosiddetto Distretto multimediale.

La partita è sindacale, industriale e mediatica allo stesso tempo. Con registi illustri, italiani e francesi, che firmano appelli, salvo poi confessare, come Tornatore, di non sapere granché della vicenda; interventi più o meno informati sui giornali (Ozpetek, Martone, Verdone, Letta, Ghini e altri); mentre il tempo stringe e il deficit di Cinecittà Studios, da non confondere con Istituto Luce-Cinecittà spa, è salito l'anno scorso a 3 milioni e mezzo.

I lettori sanno come stanno, suppergiù, le cose. Il sottoscritto s'è beccato anche una discreta porzione di insulti, da parte di alcuni dimostranti, per aver ironizzato su una certa retorica bolsa e nostalgica attorno ai destini di Cinecittà, sempre definita - ancora? - "la fabbrica dei sogni". Purtroppo i sogni sfioriscono all'alba.

A parte una decina scarsa di registi, da Avati a Verdone, da Moretti a Ozpetek, da Garrone a Corsicato, nessuno gira più film a Cinecittà; e anche la tv, inclusi Bonolis e la De Filippi, va altrove da tempo; per non dire della pubblicità, che disdegna perfino i collegati studi di Papigno, a Terni, legati a Roberto Benigni, ormai inutilizzabili (infatti perdono 300 mila euro all'anno).

Parola di Abete: «Il cinema italiano non viene più a girare da noi non perché c'è la televisione ma perché non possiede un'adeguata struttura industriale per sostenere certi costi. E se i film non si fanno, tutto si restringe. Con 200 mila euro di fatturato a film non si va da nessuna parte. Se fossero quindici film all'anno, e non capita più, arriveremmo a 3 milioni, che è la cifra che pago allo Stato solo d'affitto».

Insomma, difficile uscirne. E intanto, a causa dell'alto costo della mano d'opera, si "delocalizza" in Bulgaria, Romania, Serbia. Abete conferma che andrà la prossima settimana alla commissione Cultura del Senato per illustrare il piano aziendale, ma aggiunge che la trattativa sindacale è cosa diversa, le "ammucchiate" non gli piacciono, e proprio per questo è saltato l'incontro con gli autori dell'Anac, tra i quali Scola e Maselli.

Che fare, allora per sbloccare la situazione? Per il presidente di Cinecittà Studios e i suoi soci (De Laurentiis, Della Valle e la famiglia Haggiag) bisogna che cessi prima l'occupazione, in modo da poter far ripartire le attività, nonostante la pausa estiva. «Il clamore sui giornali, unito alla disinformazione, sta producendo un effetto sistemico e un danno grave di immagine. I nostri lavoratori, interpellati da qualche autorevole regista, vanno dicendo in giro che stiamo chiudendo, che vogliamo "cementificare"».

Per Abete, sempre più accalorato nella polemica contro chi lo giudica «uno speculatore», non sarebbe così: «Vogliamo attrarre produzioni internazionali, rilanciare l'azienda ed evitare di licenziare 50 lavoratori, anzi se possibile ci piacerebbe assumerne di nuove». Lui dice spesso «esuberi», parola deprecabile e fastidiosa, perché spersonalizza e trasforma, appunto, le persone in numeri.

Ma certo la faccenda s'è fatta maledettamente seria, proprio su quel versante. «Se non trovo l'accordo con i sindacati sarò costretto ad avviare le procedure di licenziamento», ribadisce. Per evitare la sciagurata ipotesi, bisogna che una cinquantina di lavoratori, 32 del settore scenografia e 18 di altri servizi, si trasferiscano sulla Pontina, in quella che fu Dinocittà e oggi si chiama Cat, ovvero Cinecittà allestimenti e tematizzazione. Soluzione scomoda sul piano pratico, certo, ma sempre meglio spostarsi di una ventina di chilometri che perdere salario e lavoro. O no?

Secondo Abete, separare il reparto scenografia dagli studi storici di Cinecittà permette di ridurre i costi e di differenziare i reparti produttivi, mettendo a disposizione di altre attività (costruzioni per centri commerciali e parchi a tema) il know-how del settore di fronte «alla strutturale riduzione della domanda cinematografica».

Così nessuno resterebbe a casa: 50 lavoratori andrebbero al Cat, 87 continuerebbero nel campo delle lavorazioni digitali grazie all'accordo di partnership con la società internazionale DeLuxe, 6 finirebbero nella joint-venture con Panalight, i restanti 79 rimangono a Cinecittà Studios.

Vero? Falso? Abete sostiene che non c'è trucco sotto, o si fa così o si chiude; i sindacati sospettano invece che si voglia "spacchettare" Cinecittà Studios e cucinare una sorta di spezzatino industriale. Fuori della Casa del cinema, lo scenografo "oscarizzato" Dante Ferretti, uno di casa a Cinecittà, prova a discutere con i dimostranti, spiegando loro come vanno le cose negli Studios americani. Ma il dialogo è arduo, i megafoni coprono le parole.

 

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