I DESTINI DI ALITALIA E TELECOM DIMOSTRANO CHE IN ITALIA NON CI SONO PIÙ IMPRENDITORI DI LIVELLO MA SOLO “PRENDITORI” SPOLPA-AZIENDE, “MAGNAGER” CHE GIOCANO CON LA FINANZA

Maurizio Maggi e Luca Piana per "l'Espresso"

È arrivata l'ora della verità... L'economista Giulio Sapelli battezza così un autunno che promette di rivelarsi indimenticabile per il capitalismo italiano. Nel giro di poche settimane potrebbero terminare definitivamente in mani straniere due colossi che tutti conoscono: la compagnia aerea Alitalia e il gigante dei telefoni Telecom Italia. «Non basta nemmeno più sperare che lo Stato riesca a darsi una politica industriale, a questo punto serve un'operazione di salvezza nazionale», è l'allarme di Sapelli, che insegna Storia dell'Economia alla Statale di Milano.

E, da storico, si spinge a ipotizzare un super-commissario pubblico che svolga il ruolo dell'Iri durante il fascismo, salvando un Paese che ritiene stia andando a rotoli. Di tutt'altro segno l'opinione di un altro commentatore di cose economiche, Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society, fautore di un mercato senza vincoli: «Se c'è qualcosa da criticare negli investimenti esteri in Italia, è che sono troppo pochi» .

Pare difficile persino da immaginare ma, in questi giorni di dibattito rovente, c'è un dato di partenza che accomuna contrari e favorevoli alla discesa degli stranieri lungo la penisola delle fabbriche: la scomparsa degli imprenditori italiani o, quantomeno, la loro evidente marginalizzazione. C'è stato un lungo periodo dove bacchettare le scelte furbesche dei capitalisti "made in Italy", i sistemi barocchi con cui comandavano sui loro gruppi calpestando i diritti degli azionisti di minoranza, era uno sport molto popolare.

«Razza padrona», «capitalisti all'italiana», «capitani di sventura», sono solo alcune delle azzeccate espressioni che nel tempo sono state utilizzate per dipingere quel manipolo di famiglie che comandava sull'Italia post-boom economico, gli Agnelli, gli Orlando, i Falck, i Pirelli, i Ferruzzi, i Lucchini. Ora però, scomparsi molti di quei protagonisti, si è caduti nell'eccesso opposto.

Un gigante come Telecom viene conquistato per poche centinaia di milioni di euro dalla spagnola Telefonica, che molto probabilmente provvederà a smembrarla in vari pezzi, senza che nessuno faccia un'offerta concorrente. Nel frattempo l'Alitalia si appresta a vivere l'ennesima tappa della propria agonia, con l'Air France che detta le condizioni a cui è disposta ad accollarsela, mentre i vecchi «patrioti» che nel 2008 Silvio Berlusconi aveva spinto a comprarla non sanno nemmeno che pesci pigliare.

LE DIMENSIONI CONTANO
Per raccontare la fine delle grandi famiglie del capitalismo, e perché oggi molti imprenditori sono tentati di vendere l'azienda per godersi il gruzzolo, si può partire da un dato di fatto: le poche multinazionali italiane nei settori industriali vanno nel complesso sempre peggio. Nel 2012, dicono i dati elaborati da R&S, l'ufficio studi di Mediobanca, sono rimaste soltanto in sedici a superare la soglia dei tre miliardi di fatturato.

E solo uno sparuto terzetto poteva vantare un giro d'affari superiore agli ottanta miliardi: l'Eni, l'Exor degli Agnelli e l'Enel. Molto distanziata la quarta classificata, Telecom, ferma a 28,9 miliardi.

Leggendo con attenzione i bilanci, si fanno dunque alcune spiacevoli scoperte. Innanzi tutto le multinazionali con sede in Italia sono piccole: il loro fatturato rappresenta soltanto il 7 per cento di quello di tutti i grandi gruppi europei, contro il 26 per cento della Gran Bretagna, il 21 della Germania e il 15 della Francia. Esportano poco nei Paesi dell'Asia. Sono tutte controllate dallo Stato o dalle poche famiglie rimaste sulla breccia. E, soprattutto, appaiono troppo deboli per recuperare il divario che le separa dalle concorrenti, soprattutto tedesche e francesi: sono meno solide finanziariamente, hanno una minore produttività e rendono meno.

Al punto che molte restano lontane dai livelli precedenti la crisi del 2008, al contrario delle tante che in Europa sono tornate a correre.
In un mondo in cui le dimensioni contano, è dunque facile intuire perché l'Italia, negli ultimi anni, si è trasformata in terra di conquista. Un ultimo numero, giusto per capire il vicolo cieco in cui si è ritrovata Telecom: se si guarda il valore dell'azienda, misurato in termini di attivo di bilancio, si scopre che è soltanto il dodicesimo gruppo al mondo nel settore delle telecomunicazioni.

Con 37 miliardi di euro, il presunto gigante tricolore è in realtà un nano, distaccato in maniera sostanziale dall'América Móvil del magnate messicano Carlos Slim (undicesima con 50 miliardi) e lontana anni luce dalle prime tre in classifica, la giapponese Ntt, China Mobile e la britannica Vodafone, che vanno da 110 miliardi in su. Telefonica, il gruppo spagnolo guidato da César Alierta, conquistador di Telecom, occupa la sesta posizione, con un valore più che doppio rispetto alla sua preda italiana.

ARRIVANO PERSINO GLI AZERI
«Il governo deve bloccare la cessione di Telecom», ha tuonato Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle. Come si vede nella tabella qui a fianco, però, la compagnia telefonica è solo l'ultima di una lunga serie di aziende vendute. Lo shopping ha coinvolto di tutto, dai gioielli Bulgari alle moto Ducati, dai resort sardi alle lane Loro Piana.

E non si fermerà. Coreani e americani sono già in corsa per le turbine Ansaldo e i treni Breda. E in futuro altri nomi importanti potrebbero finire nel carrello della spesa, dalle gomme Pirelli al petrolio dell'Api. Dopo cinesi, arabi, turchi e russi, altri esotici acquirenti sono intenzionati a spendere nel supermarket Italia, come la compagnia energetica di Stato dell'Azerbaijan, la Socar, disposta a mettere sul piatto una fetta dei cospicui profitti che zampillano dai giacimenti del Mar Caspio.

È vero che, in questi anni, non sono mancati imprenditori che hanno scommesso sull'estero. La Luxottica di Leonardo Del Vecchio è forse l'esempio di maggior successo, mentre il futuro della Fiat di John Elkann è legato alla difficile partita per arrivare alla fusione con l'americana Chrysler. Il flusso transfrontaliero delle compravendite è però nettamente sbilanciato a favore del capitale estero. Nel 2012, secondo le stime della Kpmg, le acquisizioni italiane oltre confine valevano 1,8 miliardi, la cifra più bassa dal 2000. Per contro, dall'estero sono arrivati 7,3 miliardi per papparsi aziende italiane in vendita.

SE PAPÀ SCEGLIE LO YACHT
Se si guarda l'intera struttura delle imprese nazionali, e non ci si ferma ai big, si scopre che a vendere sono anche gli imprenditori più piccoli, che vivono la ditta come un'estensione diretta della loro persona e, spesso, non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di delegare la gestione a un manager esterno. «Il cambio generazionale è una delle questioni cruciali. Quando il fondatore di un'azienda decide di ritirarsi, per la famiglia vendere può essere una scelta naturale», spiega Alessandro De Nicola.

Il caso simbolo è quello dello stilista-imprenditore Giorgio Armani, che in questi anni ha fieramente respinto le infinite richieste che gli sono arrivate per il suo gruppo: «La domanda che certamente Armani si pone è se esiste qualcuno in grado di mantenere l'azienda al livello a cui lui l'ha portata», dice De Nicola. Che, in termini d'interesse generale, sposta l'attenzione non tanto sulla vendita di una impresa, quanto su quello che accade dopo: «Il fatto che arrivino gli stranieri dev'essere visto come un bene, perché possono portare manager più capaci e nuovo know how. Nel lungo periodo, però, il rischio è che chi ha incassato un sacco di soldi vendendo la propria azienda non reinvesta in una nuova attività».

Un altro "vizio" dell'imprenditoria nazionale, e soprattutto delle generazioni che seguono il fondatore tutto casa e prodotto, è quello di imboccare la scorciatoia della finanza. Anziché rischiare nell'allargare il perimetro della propria ditta, i giovani rampolli che hanno studiato nelle scuole di management preferiscono scommettere le fortune dei padri sui mercati finanziari. Così molte piccole e medie imprese rimangono tali. E non provano neppure a diventare delle realtà globali, anche attraverso acquisizioni all'estero. Una scelta che, in un mondo dove servono investimenti sempre più corposi e lo sviluppo di tecnologie avanzate, contribuisce a deprimere la competitività del sistema Italia.

GUCCI O TELETTRA?
Nelle telecomunicazioni, ad esempio, è chiaro che si sta andando verso la riduzione del numero degli operatori. Dunque qualcuno compra e altri vendono, argomenta Andrea Rangone, direttore degli Osservatori di Information and Communication Technology di Milano: «In Europa ci sono oltre cento competitor, un'enormità. In America se la vedono due grandi player e una manciata di piccoli. Da italiano, ovviamente, avrei preferito che fosse Telecom Italia a fare da aggregatore. Ma non è stata in grado di farlo, e quindi era destinata a finire nell'orbita di qualcuno più grosso di lei, nell'ambito dell'inevitabile "risiko" a livello europeo che sta per scatenarsi».

Per Rangone sarebbe però importante scorporare da Telecom l'infrastruttura, cioè la rete telefonica: «Se si fa questo passo, non ha grande importanza la nazionalità dell'operatore». Il dilemma che ora la politica dovrebbe risolvere è come preservare il controllo su quello che ritiene strategico. Senza però esagerare: «Siamo onesti: di veramente strategico in Italia non c'è tantissimo: una parte dell'industria militare, le reti strutturali, come quella telefonica, e le reti energetiche. Stop.

Ma un operatore telefonico, sia fisso che mobile, non è affatto strategico, così come non lo è la Parmalat. Spesso il concetto di "strategico" è stato dilatato a dismisura per coprire altri interessi», sostiene Gianluca Spina, presidente della Mip, la Business School del Politecnico di Milano. Una volta salvaguardato quel nocciolo di attività, insomma, su tutto il resto è inutile soffermarsi sul passaporto della proprietà. In questo senso sono emblematici i casi, esattamente antitetici, di due acquisizioni che hanno visto protagonisti i francesi.

L'esempio di take-over perfetto, per il docente milanese, è quello della Gucci. «La Lvmh di Bernard Arnault ha capito che sarebbe stato sbagliato mettere in discussione la connotazione "made in Italy", per non dire "made in Florence" della maison toscana. E così per la clientela globale il brand Gucci è rimasto assolutamente italiano».
Sarebbe stato meglio, si chiede retoricamente Spina, se fosse finita in mano a qualche improbabile cordata italiana, con scarsi mezzi e incapace di dare al marchio la giusta spinta? Certamente no.

Di tutt'altro segno, invece, la più antica cessione all'Alcatel di Telettra. Un gioiello, leader nei ponti radio per le telecomunicazioni. Tutto quel che si poteva sbagliare, da parte del compratore, è stato sbagliato. «I francesi si sono comprati un'azienda ma soprattutto un mercato, hanno dato garanzie sull'occupazione a governo e sindacati, mantenendo importanti commesse sul fronte pubblico ma senza investire sulla ricerca, in cui Telettra era all'avanguardia. Dopo cinque anni, la storia era finita, con Telettra che sfiorisce e diviene una insignificante presenza nel gruppo Alcatel». Morale: Alcatel e Lvmh sono entrambe due francesi; la seconda aveva un piano, la prima no.

QUEL CHE SERVE DAVVERO
Il governo Letta si sta spendendo per convincere i potenziali investitori esteri che l'Italia è un grande Paese in cui venire a fare impresa. Quando però qualche azienda tricolore di un certa fama - anche se magari con i bilanci in rosso e sommersa di debiti - finisce nel mirino di gruppi stranieri, non manca mai chi si mette a sventolare la bandiera dell'italianità. Ma si può essere italiani, comprare una società italiana e non dimostrarsi granché efficaci, come hanno dimostrato in questi anni le pagelle dei due ex monopolisti Alitalia e Telecom.

E dunque? Il problema di fondo resta quello di far ripartire la crescita economica, in modo che l'Italia torni ad essere un posto interessante per investire, sia per gli imprenditori stranieri che per quelli italiani, che hanno congelato i loro capitali in Btp, fondi esteri e conti svizzeri. E magari far sì che non ci sia soltanto uno shopping compulsivo dei gioielli del made in Italy, ma anche nuovi stabilimenti dal "prato verde".

«Per riuscirci basta mettere in pratica politiche di attrazione, che sostanzialmente significano due cose: rendere straordinariamente più semplici iter e norme che regolano l'attività d'impresa e accorciare drasticamente i tempi della giustizia civile», dice il professor Spina.

Date ai capitalisti d'oltreconfine uno sportello unico per interfacciarsi con l'apparato pubblico e la certezza che, se litiga con clienti o fornitori, e va in tribunale, avrà un verdetto nel giro di sei mesi e non di dieci anni, e arriveranno a frotte. Tutto il resto è fuffa. Anche le agevolazioni fiscali o altri incentivi, perché finiscono per far arrivare soprattutto operatori animati da obiettivi opportunistici. Cioè a intascarsi l'aiuto pubblico senza uno straccio d'idea imprenditoriale in grado di aver successo.

 

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