MAO BOMBER! - ANCHE I TURBOCAPITALISTI DI PECHINO HANNO CAPITO CHE NON C’E’ NULLA DI MEJO DEL CALCIO PER CONQUISTARE CONSENSI E FARE AFFARI - LIPPI, DROGBA E ANELKA APRONO LA BRECCIA NELLA GRANDE MURAGLIA - I PROSSIMI A FARSI SEDURRE DA YUAN POTREBBERO ESSERE MARADONA E DEL PIERO - L’INTER E SOLO IL PRIMO GRANDE CLUB AD APRIRE LE PORTE ALLA CINA, MENTRE IL SOGNO E’ ORGANIZZARE UN MONDIALE…

Giampaolo Visetti per "la Repubblica"

Gli eredi di Mao Zedong entrano nel tempio reale del capitalismo europeo, simbolo della ricchezza coniugata in affari privati e spettacolo pubblico: il pallone, la sola sfera che, se presa a calci, proietta direttamente nel cuore del potere. E così la Cina comincia a mordicchiare anche la torta più ambita, e ultimamente carente di zuccheri, del Vecchio Continente: il football, collante estremo della polverizzata società occidentale e treno ad altissima velocità per la simpatia di potenze emergenti con spiccati problemi d'immagine.

E non è un caso se la "missione-calcio" di Pechino, oltre la Grande Muraglia e in stile parimenti grande, esordisce sul palcoscenico di Milano, emblema dell'alta moda e della finanza in rotta, secondo le piazze dell'Estremo Oriente. All'Inter di Massimo Moratti andranno tra i 200 e i 350 milioni di euro, 55 di denaro fresco al netto dei debiti, l'impegno a costruire il nuovo stadio meneghino entro il 2017 e la promessa di trasformare la società, attraverso lo sponsor Pirelli, nel club più sognato da oltre un sesto della popolazione del pianeta.

A fianco degli azionisti ci sono la China Railway Construction Corporation e la Qsl Sport Ltd., colossi delle costruzioni e del business sportivo sotto solido controllo della Città Proibita. Il pacchetto prevede quote tra il 15 e il 20% della squadra nerazzurra, presto il 40% e la licenza per vendere il prodotto-Inter, dalle partite al merchandising, nel mercato dei consumi più ricco e in espansione del mondo.

Il denaro della seconda economia del mondo, vettore del futuro, in cambio del softpower nell'universo che ha dominato gli ultimi secoli, scrigno del passato. Ma soprattutto il grande affare del presente tra Cina e Italia, culle dei più vasti e influenti imperi della storia.

Il nuovo calcio che si tinge di giallo, ma vestito del profetico rosso vivo della nuova divisa morattiana e del vermiglio della bandiera con le cinque stelle, non si limita però a una boccata d'ossigeno nei polmoni asfittici di una zona-euro che non può più permettersi di lucidare i gioielli di famiglia.

Conferma piuttosto che la finanziarizzazione del pallone proietta lo show oltre lo sport e al di fuori della portata di tycoon che fanno i conti ancora in moneta unica. E sancisce le nuove ambizioni globali della Cina, impegnata a conquistare il mondo senza sprecare una cartuccia, ma innaffiandolo con il profumo intramontabile del renminbi, valuta di riserva del dopo-dollaro.

Dopo gli oligarchi russi che hanno pasteggiato con il glorioso calcio inglese, gli sceicchi arabi che a quello hanno aggiunto i brindisi di Parigi, i magnati americani che non hanno resistito alla nostalgia per Roma, tocca dunque ai mandarini comunisti di Pechino, decisi a trasformare la Cina nell'Europa di questo secolo.

Perché il Dragone, a differenza di Mosca, Dubai e New York, al dio-calcio non chiede solo il passaporto per il salotto buono dell'alta società irresistibilmente attratta verso il basso: irrompe nello stadio per trascinare le sue casse in casa propria, a beneficio della Borsa e del partito.

Un progetto avviato da lontano, con lo scandalo-tangenti che ha decapitato il calcio-giallo, e che segue la "via cinese" anche nel pallone: acquistare campioni, assumere maestri, aprire scuole, ingaggiare top-club, produrre scarpe e magliette, inaugurare shoppingcentre, organizzare finali, vincere le aste per i match in tivù e infine infilare un piede nella sfera degli altri per importare il rito più seguito dagli umani. Obbiettivo? Guadagnare una montagna di soldi, rendere gloria universale alla grande Cina e garantire stabilità alla patria, ossia blindare il potere dell'unico partito comunista di successo nella storia.

Un'impresa titanica, in una nazione che si paralizza per il ping-pong e per il badminton, per il basket e per il kung-fu, per i tuffi e ora pure il tennis, ma che ancora pensa il calcio come un pugno di borghesi in mutande che rincorrono un grumo di cuoio gonfiato. Ma pure un «grande balzo in avanti» che, già in pochi anni, dona la certezza che non ci lascerà scampo. Primo tentativo nel 2002: Pechino affidò i brocchi della nazionale al guru Bora Milutinovic, conquistò la prima fase finale dei Mondiali e incassò, con nove gol in tre partite, la figuraccia più scottante del nuovo millennio.

Il salto di qualità dopo il 2008, a Olimpiadi colossali ancora calde. La nuova generazione dei leader post-maoisti, risvegliati liberisti, comprese all'improvviso l'effetto-sport, il miracolo della passione planetaria per un gioco, i suoi bilanci e il dovere contemporaneo, per chi ambisce a governare il mondo, di presentare lo show che sintetizza bellezza, ricchezza e propaganda.

Era il 2011 e nella classifica Fifa la nazionale cinese compariva al 73° posto, tra Malawi e Zambia, il punto più basso di un mandarino in qualunque graduatoria. Per questo la domanda di Arsen Wenger, mago dell'Arsenal, umiliò Pechino peggio di uno schiaffo: «Perché - chiese - siete un miliardo e quattrocento milioni, avete oltre un milione di milionari, ma non avete un Pelè, un Maradona, oppure un Messi?».

Sono passati pochi mesi, qualche processo, alcuni scandali, molte condanne e il nuovo calcio «made in China» esibisce vertici politici nuovi di zecca. Ma soprattutto, sull'esempio di Giappone e Corea del Sud, grazie ai primi esperimenti di Damiano Tommasi e Renzo Ulivieri, per restare in Italia, presenta al mondo i suoi giovani capitalisti di Stato e i due traguardi dei suoi prossimi leader dell'autoritarismo dell'Est più corteggiato dalla democrazia dell'Ovest: diventare la prima potenza anche nel calcio e organizzare prima possibile i Mondiali dell'azzardo più sportivo del pianeta.

Come? Semplice: pagando. E' tirando la mano fuori dalla tasca, all'occidentale, che la scorsa estate in Cina hanno zampettato sotto il monsone le star di Barcellona e Real Madrid, oltre ai primi club di Sua Maestà. Quest'anno poi, l'esagerazione: l'iridato Marcello Lippi, undici milioni di euro a stagione, è atterrato a Guangzhuo, l'ex ct dell'Argentina Batista ha raggiunto a Shanghai (il Chelsea dell'Asia) Didier Drogba e Nicolas Anelka, mentre si giura che per Maradona in panchina e Del Piero in campo, sedotti da riso e tè verde, è questione di tempo e yuan.

In luglio "squadrette" come Manchester City, Manchester United, Arsenal, Bayern Monaco e Wolfsburg, hanno interrotto i ritiri per allietare le serate torride del nuovo ceto medio cinese che sostiene la nobiltà britannica venduta agli emiri. Il Liverpool è sfuggito per un soffio, la Supercoppa di Spagna, dal 2013, no. L'11 agosto, controvoglia e a corto di sponsor, Juventus e Napoli si contenderanno invece la Supercoppa italiana nel Nido d'Uccello disegnato dal dissidente Ai Weiwei. La macchine della Fiat e il cinema di De Laurentis, uniti dalla speranza che il contratto-capestro firmato dalla Figc, tre finali in cinque anni nella capitale della Cina, si riveli infine la medicina universale per prodotti in cerca di clienti.

A Pechino si narra che i Sensi e Unicredit, a Roma, ancora si mangino le mani per aver preferito i dollari di Pallotta ai renminbi del fondo sovrano cinese, capace
di assicurare budget da favola al brasiliano Fluminense e stipendio record a Dario Conca, campioncino misterioso da 26 milioni di euro. Gli ultimi colpi si chiamano Cleo e Muriquì, Lucas Barrios, ma la stampa di partito già si esalta alla prospettiva di aste mai viste per il viale del tramonto di Messi, Ronaldo, Robben e Buffon, convocati nella Cina capitale globale del pallone.

L'ordine è trapiantare anche il soccer nel rinato Impero di Mezzo, come una multinazionale o una Borsa qualsiasi, come il cacao, trasferire Londra, Madrid e Milano a Pechino, Shanghai e Shenzhen, passare dalla cucitura del pallone al commercio del calcio, come compete a chi regna sulla terra. Poi verranno i Mondiali, Pelè si chiamerà Yang e Maradona Ming. Non finirà come negli States, aggrappati al declino delle giacche di Beckham, e in piazza Tianamen toccherà sfilare anche a Mourinho.

Proprio alla guida dell'Inter di Eto'o, tre anni fa, nel Nido d'Uccello giurò di sapere perché la Cina nel calcio non aveva mai vinto niente. Non sapeva che il signor Fengchao Meng stava per comprarsi un pezzo della sua squadra del triplete. Mai avrebbe scommesso che i principi rossi, puntando su una sfera, stanno arrivando sul tetto del mondo che non si chiama Everest.

 

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