1. ANCHE SACCOMANNI FA IL TATTICO ISPIRANDO IL 'CORRIERE' DI LETTA: POTREI DIMETTERMI 2. IN REALTA' IL GOVERNINO DI LETTA NIPOTE VUOLE SOLO RIDURRE LE PRETESE DI “FARSA ITALIA” CON IL BANANA AZZOPPATO E RESTARE LIGIO AI DIKTAT EUROPEI DI MARIO DRAGHI 3. MA LETTA-“DRAGOMANNI” DOVREBBERO CHIEDERSI SE, A PRESCINDERE DA CHI LA CHIEDE, ALL'ITALIA SERVE O NO AUMENTARE L'IVA DANDO UN'ALTRA BOTTA AI CONSUMI GIA' MORTI 4. E POI CONVERREBBE ANCHE ASPETTARE I RISULTATI DELLE ELEZIONI TEDESCHE: SE LA MERKEL VA MALINO SAREMO UN PO' MENO SCHIAVI DELLA MANNAIA DEL 3 PER CENTO 5. AMORALE DELLA FAVA: IL PD COME IL GOVERNO (E “LA REPUBBLICA” IN SCIOPERO PER GLI 80 PREPENSIONAMENTI COATTI MENTRE I DE BENEDETTTI INCASSANO 491 MILIONI DA BERLUSCONI) PROPRIO NEL MOMENTO DEL TRIONFO SUL CAVALIERE CONDANNATO SI SPACCANO

Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia all'assemblea del Pd

1. SACCOMANNI PRONTO A LASCIARE: «BASTA COMPROMESSI». INEVITABILE L'AUMENTO DELL'IVA
Ferruccio De Bortoli per il Corriere della Sera

Sono ore drammatiche per il governo Letta. L'amara e onesta constatazione di aver infranto, seppur di poco, il limite del 3 per cento nel deficit 2013, a pochi mesi dall'uscita dalla procedura europea, e con l'incubo di ritornarci subito, ha creato nell'esecutivo un'atmosfera nella quale la delusione si mischia all'impotenza.

L'aumento dell'Iva dal 21 al 22 per cento dal primo ottobre non appare più evitabile, e nemmeno rinviabile. Il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni lo ha detto con chiarezza sia al premier Letta, sia al presidente della Repubblica. Non accetterà altri compromessi. Ed è pronto a dimettersi.

La lettera non l'ha ancora scritta, ma è come se lo avesse già fatto. La tentazione di formalizzarla è cresciuta dopo aver letto le dichiarazioni di Epifani, a cui si sono aggiunte ieri quelle di Alfano, entrambi fermamente contrari al ritocco dell'Iva.

Quello che amareggia di più il titolare dell'Economia, poco avvezzo alle liturgie della politica, è il sentirsi dire in privato una cosa, specialmente dall'esponente pdl, e ascoltare poche ore dopo in pubblico l'esatto contrario. Un po' di gioco delle parti è comprensibile, ma qui siamo alle acrobazie più estreme. Il disagio è forte. La voglia di andarsene, altrettanto: «Ho una credibilità da difendere e non ho alcuna mira politica».

Il pensiero di Saccomanni è così riassumibile. Dobbiamo trovare subito 1,6 miliardi per rientrare di corsa nei limiti del 3 per cento. Poi si dovrà concordare una tregua su Iva e Imu, rinviando la questione al 2014 con la legge di Stabilità che va presentata entro il 15 ottobre.

Se si agisce subito, è sperabile che l'effetto sui tassi d'interesse sia positivo e si possa finire l'anno con un dato consuntivo sul deficit ben inferiore al maledetto limite del 3 per cento, grazie ad alcune operazioni già allo studio, come una serie di privatizzazioni, e la rivalutazione delle quote della Banca d'Italia oggi a bilancio degli istituti che ne detengono il capitale per cifre irrisorie.

Una volta aggiornate le quote di via Nazionale ne beneficerebbe anche l'Erario. Solo così si potrebbe aprire una seria prospettiva per la riduzione delle tasse e rendere praticabile un sostegno alle imprese con l'alleggerimento del cosiddetto cuneo fiscale. Ma questo presuppone che non si vada a votare presto, altrimenti è tutto inutile. E oltre alle sanzioni del mercato, avremmo anche le multe dell'Unione Europea.

Anche l'ipotesi di differire l'aumento dell'Iva a fine anno è poco praticabile. Nemmeno se aumentassimo la benzina di 15 centesimi - è l'esempio che propone il ministro - riusciremmo a incassare l'equivalente. Ma, si obietta, dopotutto si tratta di un miliardo. Poca cosa rispetto a una spesa pubblica anormalmente dilatata, all'apparenza granitica, incomprimibile. Il coraggio di tagliare veramente non c'è. Già, la spesa pubblica. Qui il ministro non si trattiene da un piccolo sfogo.

D'accordo, la colpa dello sforamento del limite del 3 per cento sarà tutta dell'instabilità politica, come ripete Letta un giorno sì e l'altro pure, ma se guardiamo bene a quello che è accaduto da maggio in poi ci accorgiamo che la cinghia non l'abbiamo proprio tirata del tutto. Anzi. Saccomanni ricorda che negli ultimi mesi sono stati reperiti già ben 12 miliardi per far fronte alle varie misure. Necessarie, vitali per tentare di affrontare la crisi e sperare nella ripresa, per carità.

Ma con il conto dei vari incentivi, del rifinanziamento della cassa integrazione, per non parlare dello sblocco dei pagamenti arretrati della pubblica amministrazione che affluiscono alle imprese - finalmente in questi giorni, con effetti positivi sulla congiuntura - si sono esauriti i margini. Finiti. La piccola eredità del governo Monti (che alla luce degli ultimi dati di finanza pubblica non ne esce proprio così male) non c'è più. «Io non mi metto alla disperata ricerca di un miliardo se poi a febbraio si va a votare. Tutto inutile se una campagna elettorale è già iniziata».

La preoccupazione del ministro dell'Economia delle larghe intese, che il capogruppo alla Camera del Pdl Brunetta si ostina a considerare una sorta di tecnico prestato alla bisogna (con le reazioni personali che sono facilmente immaginabili) è quella che il clima politico non consenta più un discorso serio sulle finanze pubbliche, proprio nel momento in cui si cominciano a vedere i frutti dei sacrifici e il dividendo delle poche scelte rese possibili.

Un vero peccato, ma soprattutto una dimostrazione di completa irresponsabilità nazionale. Saccomanni è sconcertato dal dilagante populismo antieuropeo. La retorica dei sacrifici chiesti dall'Europa senza mai dire che il rispetto degli impegni è scritto in leggi e decreti votati dal Parlamento e il pareggio di bilancio è addirittura una norma costituzionale.

Avanti così e ci siederemo al tavolo a Bruxelles con poche possibilità di strappare condizioni più favorevoli (non a caso l'allentamento del 3 per cento di cui si parla in questi giorni per i Paesi ad alta disoccupazione non riguarderebbe l'Italia, come se il problema non ci toccasse direttamente). «Gli impegni vanno rispettati, altrimenti non ci sto».

Parlando a Cernobbio, al workshop Ambrosetti, all'inizio del mese, il ministro aveva ricordato le condizioni poste a Letta per accettare di lasciare la direzione generale della Banca d'Italia e trasferirsi in via Venti Settembre: il rigore nei conti. Dunque, se i partiti vogliono riaprire irresponsabilmente i rubinetti della spesa lo facciano pure, ma non con la sua firma.

Anche le parti sociali hanno le loro responsabilità. A parole tutti d'accordo sulle riforme, poi c'è la fila al ministero per incentivi ed esenzioni. Più serio - termina Saccomanni - il giovane re d'Olanda Willem-Alexander, che commentando il bilancio pubblico ha detto: lo stato sociale non è più sostenibile, occupatevene seriamente prima che sia troppo tardi.
E noi qui facciamo finta di non avere né debiti né scadenze...

2. LE NUOVE REGOLE ASFALTANO IL PD. VINCE LA FRONDA ANTI CONGRESSO
L'ASSEMBLEA FINISCE IN FLOP: MANCANO I NUMERI, NIENTE VOTO SULLA SEPARAZIONE DEI RUOLI DI SEGRETARIO E CANDIDATO PREMIER. E L'ASSE BERSANI-LETTA PUNTA A RIMANDARE LA CONVENTION
Laura Cesaretti per Il Giornale.it

Il caos in cui è sprofondato ieri il Pd, con l'Assemblea nazionale solennemente convocata a Roma e poi finita nel nulla perché - forse - non c'erano i numeri per votare legalmente avrebbe dunque una ratio, e dei mandanti.

Il fronte anti-Renzi, chi per mantenere il controllo del partito e delle liste, chi per mantenere la poltrona governativa, ha sabotato l'intesa su regole e data del congresso per allungarne i tempi, allontanando l'ascesa del sindaco e scavallando il 2013 per arrivare al prossimo anno. Più vicino possibile a quella data, in giugno, che Letta vede come la messa in sicurezza del suo gabinetto, perché con l'Italia alla guida della Ue per un semestre nessuno può permettersi di far saltare il governo.

E il gioco, evidentemente, valeva la candela se si è accettato di far fare al Pd «l'ennesima clamorosa figuraccia», come dice Nicola Latorre. Per di più dopo il film visto in mattinata, che aveva risollevato gli animi Pd: la serie di interventi efficaci e applauditissimi dei candidati segretari, l'abbraccio tra Renzi e Cuperlo che sembrava segnare l'avvento di un Pd rinnovato e proiettato verso il futuro.

La battaglia contro la modifica dell'articolo 3 dello Statuto, quello che prevede l'identità tra segretario e candidato premier, la hanno fatta, e vinta, Enrico Morando e Rosy Bindi. Spiegando all'assemblea, tra gli applausi, che in tutti i paesi democratici il leader di un partito è candidato premier, e che cambiare quella norma è «snaturare l'impianto stesso del Pd».

Dopo i loro interventi, però, è stato chiaro che difficilmente si sarebbe raggiunta la maggioranza necessaria a cambiare lo Statuto, ossia i due terzi dei presenti: bindiani, civatiani e veltroniani erano pronti a votare per mantenere l'identità segretario-premier. La loro richiesta di votare le modifiche statutarie per parti separate, però, è caduta nel vuoto.

Così come la proposta, nella commissione sulle regole riconvocata in extremis per uscire dall'impasse, di togliere dal tavolo l'articolo su premier e segretario e approvare solo le altre modifiche che dovrebbero snellire il processo congressuale. Lì il niet è stato pronunciato dall'emissario lettiano, alimentando il sospetto che ex segretario e attuale premier giochino di sponda per boicottare le assise.

«L'8 dicembre sarà difficile farcela, se si rinvia di qualche settimana nessuno farà drammi»; spiegavano i lettiani Boccia e Sanna. Stesso refrain per i bersaniani, che un secondo dopo lo stop alle modifiche dello Statuto erano già in giro a spiegare: «Impossibile rispettare quella data a statuto vigente».

«Se qualcuno non vuol fare il congresso lo dica, senza usare come alibi per far saltare il banco la mia battaglia a viso aperto per difendere quella regola», avverte però Rosy Bindi. E Morando: «Abbiamo fatto le parlamentarie tra Natale e Capodanno, e ora qualcuno vuole spiegarci che non si può fare il congresso da qui all'8 dicembre? Non ci provino».

Contro l'asse Bersani-Letta, comunque, si salda l'asse del «rinnovamento generazionale» tra Cuperlo e Renzi, decisi ad ottenere il rispetto delle scadenze e ad andare al congresso per smontare le vecchie correnti. Non a caso entrambi puntano a candidarsi alla segreteria con una lista unica, senza dare spazio a chi - Bersani da una parte, Franceschini dall'altra - punta ad aggregarsi con un proprio pacchetto di mischia. «Il nuovo Pd c'è già, se ne facciano una ragione», dice il cuperliano Enzo Amendola.

3. COMUNICATO DEL CDR
Ieri Repubblica non era in edicola e il sito Repubblica. it non è stato aggiornato per lo sciopero proclamato dall'assemblea dei giornalisti. Una decisione sofferta, determinata però da un piano aziendale di interventi che prospetta la riduzione di circa un quinto dell'intero corpo redazionale, la chiusura del mensile XL e nessun chiaro piano di rilancio della testata.

Pur in un severo quadro di crisi dell'editoria mondiale e nazionale, i giornalisti di Repubblica hanno giudicato irricevibile un progetto di ristrutturazione che, oltre a colpire pesantemente i livelli occupazionali, non garantisce nessuna tutela della qualità futura del prodotto da offrire al pubblico. L'assemblea ha pertanto indetto il primo giorno di sciopero, e ha affidato al Comitato di redazione un pacchetto di ulteriori 10 giorni, nonché l'indizione dello sciopero delle firme dei giornalisti, se il progetto non verrà radicalmente modificato.
Il Comitato di Redazione

 

 

deborto saccomanni, alfano e lettaSACCOMANNI PINOCCHIO saccomanni-draghi letta by benny GIANROBERTO CASALEGGIO ROBERTO NAPOLETANO FABRIZIO SACCOMANNI AL FORUM AMBROSETTI DI CERNOBBIO LETTA E RENZI Enrico Letta a colloquio con obama article Anna Finocchiaro Barbara Pollastrini Bersani Kienge Alfredo Reichlin Assemblea PD Bersani e Cuperlo Gianni Cuperlo Matteo Renzi

Ultimi Dagoreport

giorgia meloni regionali de luca zaia salvini conte stefani decaro fico

DAGOREPORT: COME SI CAMBIA IN 5 ANNI - PER CAPIRE COME SIA ANDATA DAVVERO, OCCORRE ANALIZZARE I VOTI ASSOLUTI RIMEDIATI DAI PRINCIPALI PARTITI, RISPETTO ALLE REGIONALI DEL 2022 - LA LEGA HA BRUCIATO IL 52% DEI VOTI IN VENETO. NEL 2020 LISTA ZAIA E CARROCCIO AVEVANO OTTENUTO 1,2 MILIONI DI PREFERENZE, QUESTA VOLTA SOLO 607MILA. CONSIDERANDO LE TRE LE REGIONI AL VOTO, SALVINI HA PERSO 732MILA VOTI, IL 47% - TONFO ANCHE PER I 5STELLE: NEL TOTALE DELLE TRE REGIONI HANNO VISTO SFUMARE IL 34% DELLE PREFERENZE OTTENUTE 5 ANNI FA – IL PD TIENE (+8%), FORZA ITALIA IN FORTE CRESCITA (+28,3%), FDI FA BOOM (MA LA TENDENZA IN ASCESA SI È STOPPATA) – I DATI PUBBLICATI DA LUIGI MARATTIN....

luca zaia matteo salvini alberto stefani

DAGOREPORT – DOPO LA VITTORIA DEL CENTRODESTRA IN VENETO, SALVINI NON CITA QUASI MAI LUCA ZAIA NEL SUO DISCORSO - IL “DOGE” SFERZA VANNACCI (“IL GENERALE? IO HO FATTO L'OBIETTORE DI COSCIENZA”) E PROMETTE VENDETTA: “DA OGGI SONO RICANDIDABILE” – I RAS LEGHISTI IN LOMBARDIA S’AGITANO PER L’ACCORDO CON FRATELLI D’ITALIA PER CANDIDARE UN MELONIANO AL PIRELLONE NEL 2028 - RICICCIA CON PREPOTENZA LA “SCISSIONE” SUL MODELLO TEDESCO CDU-CSU: UN PARTITO “DEL TERRITORIO”, PRAGMATICO E MODERATO, E UNO NAZIONALE, ESTREMISTA E VANNACCIZZATO…

luca zaia roberto vannacci matteo salvini

NON HA VINTO SALVINI, HA STRAVINTO ZAIA – IL 36,38% DELLA LEGA IN VENETO È STATO TRAINATO DA OLTRE 200 MILA PREFERENZE PER IL “DOGE”. MA IL CARROCCIO DA SOLO NON AVREBBE COMUNQUE VINTO, COME INVECE CINQUE ANNI FA: ALLE PRECEDENTI REGIONALI LA LISTA ZAIA PRESE DA SOLA IL 44,57% E IL CARROCCIO IL 16,9% - SE SALVINI PIANGE, MELONI NON RIDE: NON È RIUSCITA A PRENDERE PIÙ VOTI DELLA LEGA IN VENETO E IN CAMPANIA È TALLONATA DA FORZA ITALIA (11,93-10,72%). PER SALVINI E TAJANI SARÀ DIFFICILE CONTRASTARE LA RIFORMA ELETTORALE - PER I RIFORMISTI DEL PD SARÀ DURA DARE UN CALCIO A ELLY SCHLEIN, AZZERATE LE AMBIZIONI DI GIUSEPPE CONTE COME CANDIDATO PREMIER - "LA STAMPA": "IL VOTO È LA RIVINCITA DELLA ‘LEGA NORD’ SU QUELLA SOVRANISTA E VANNACCIANA: LA SFIDA IDEOLOGICA DA DESTRA A MELONI NON FUNZIONA. IL PARTITO DEL NORD COSTRINGERÀ SALVINI AD ESSERE MENO ARRENDEVOLE SUI TAVOLI DELLE CANDIDATURE. SUL RESTO È LECITO AVERE DUBBI…”

xi jinping vladimir putin donald trump

DAGOREPORT – L'INSOSTENIBILE PIANO DI PACE DI TRUMP, CHE EQUIVALE A UNA UMILIANTE RESA DELL'UCRAINA, HA L'OBIETTIVO DI  STRAPPARE LA RUSSIA DALL’ABBRACCIO ALLA CINA, NEMICO NUMERO UNO DEGLI USA - CIÒ CHE IL TYCOON NON RIESCE A CAPIRE È CHE PUTIN LO STA PRENDENDO PER IL CULO: "MAD VLAD" NON PUÒ NÉ VUOLE SFANCULARE XI JINPING - L’ALLEANZA MOSCA-PECHINO, INSIEME AI PAESI DEL BRICS E ALL'IRAN, È ANCHE “IDEOLOGICA”: COSTRUIRE UN NUOVO ORDINE MONDIALE ANTI-OCCIDENTE – IL CAMALEONTISMO MELONI SI INCRINA OGNI GIORNO DI PIÙ: MENTRE IL VICE-PREMIER SALVINI ACCUSA GLI UCRAINI DI ANDARE “A MIGNOTTE” COI NOSTRI SOLDI, LA MELONI, DAL PIENO SOSTEGNO A KIEV, ORA NEGA CHE IL PIANO DI TRUMP ACCOLGA PRATICAMENTE SOLO LE RICHIESTE RUSSE ("IL TEMA NON È LAVORARE SULLA CONTROPROPOSTA EUROPEA, HA SENSO LAVORARE SU QUELLA AMERICANA: CI SONO MOLTI PUNTI CHE RITENGO CONDIVISIBILI...")

donald trump volodymyr zelensky vladimir putin servizi segreti gru fsb cia

DAGOREPORT - L’OSCENO PIANO DI PACE SCODELLATO DA TRUMP, CHE EQUIVALE A UNA CAPITOLAZIONE DELL’UCRAINA, ANDAVA CUCINATO BENE PER FARLO INGOIARE A ZELENSKY - E, GUARDA LA COINCIDENZA!, ALLA VIGILIA DELL’ANNUNCIO DEL PIANO TRUMPIANO SONO ESPLOSI GLI SCANDALI DI CORRUZIONE A KIEV, CHE VEDONO SEDUTO SU UN CESSO D’ORO TIMUR MINDICH, L’EX SOCIO DI ZELENSKY CHE LO LANCIÒ COME COMICO - PER OTTENERE ZELENSKY DIMEZZATO BASTAVA POCO: È STATO SUFFICIENTE APRIRE UN CASSETTO E DARE ALLA STAMPA IL GRAN LAVORIO DEI SERVIZI SEGRETI CHE “ATTENZIONANO” LE TRANSIZIONI DI DENARO CHE DA USA E EUROPA VENGONO DEPOSITATI AL GOVERNO DI KIEV PER FRONTEGGIARE LA GUERRA IN CORSO…