CAFONALINO - PER IL KINGMAKER DEGLI ITALIANI IN AMERICA ANTONIO MONDA SI SCAPICOLLA SORRENTINO (TI CREDO, GLI DEVE L’OSCAR) - BUTTAFUOCO: “LE PRESENTAZIONI DI MONDA SONO UN PRIVILEGIO, NELL’IMBARAZZO DEI SINCERI DEMOCRATICI”

Foto di Marcellino Radogna

1. ESSERE INVITATI ALLA PRESENTAZIONE DI UN LIBRO DI MONDA È UN PRIVILEGIO
Pietrangelo Buttafuoco per "Il Foglio"

Ho capito che essere invitato alla presentazione di un libro di Antonio Monda è un privilegio. Tanto per cominciare non è facile entrare. Ci sono i buttafuori alla porta e la Galleria Nazionale, a Roma, diventa il luogo dei luoghi. C'è Annalena sul palco a far coppia con Paolo Sorrentino nella fatica della presentazione. E c'è un romanzo, "La Casa sulla roccia" (Mondadori), che, per Monda, è solo un capitolo rispetto ai libri già scritti e a quelli che scriverà dopo.

Tutti collegati tra loro. Una specie di "Recherche" o di "Harry Potter" seriali. Ecco, però: un privilegio. Nell'imbarazzo dei sinceri democratici. Con Alessandro Giuli, accanto a me, a raccontarcela di sottecchi: "Non è che dopo il passo delle oche ci ritroviamo adesso a fare il passo più lungo della gamba?".


2. COME CI LASCIAVAMO
Claudia Durastanti per "IL Magazine - Il Sole 24 Ore"

Un articolo intitolato All My Exes Live in Texts... apparso tempo fa sul New York Magazine, parla di ex fidanzati che non vengono rimossi a causa di applicazioni digitali che ci permettono di monitorare la vita che hanno scelto di condurre senza di noi. È uno scenario orribile e realistico, ma non sono sicura che l'impossibilità di dimenticarsi sia un'esclusiva di questa generazione.

O che le cose fossero più sane un tempo. In che modo si lasciavano i nostri genitori? C'è stato davvero un momento in cui quando le cose finivano, finivano e basta? Se fosse così, che ce ne facciamo della protagonista del nuovo romanzo di Antonio Monda? «Il mio nome è Beth Barron, o meglio è diventato Beth Barron dopo aver sposato Warren. Fino a quel giorno ero Elizabeth Dempsey, e a casa mi chiamavano tutti Liz».

Inizia così La Casa sulla roccia (Mondadori), con una donna di mezza età che ammette di aver rinunciato al proprio nome senza strascichi particolari, per accedere a più alte sfere e a un matrimonio che la appaga e la conforta. È il giorno della festa per i settant'anni di Warren, e nel mezzo di preparativi che le permettono di vivere un momento à la Clarissa Dalloway, la signora Barron riceve la telefonata del suo primo amore, Luis.

Cambierà il mezzo, ma il suo disorientamento non è molto diverso da quello provato da una twentysomething quando scopre su Facebook che il suo primo ragazzo si è sposato: entrambe le interferenze alimentano una bolla speculativa di nostalgia e desiderio. L'unica differenza è quanto è grande la bolla e quanto ci vuole a farla scoppiare. Nel suo caso, un intero romanzo.

Da giovane è stata innamorata di Luis, un ragazzo di origini spagnole proteso verso il dramma e lo spirito. In una città in cui Brooklyn non esisteva ed Harlem non sapeva cosa fosse la gentrificazione, i due amanti andavano a incontri di boxe e frequentavano solo gallerie, non musei, perché diffidare dei luoghi istituzionali «ci sembrava un modo di affermare la nostra età». Del resto, come dice Matt Berninger, «All the most important people in New York are nineteen».

E Beth e Luis sono importanti, innanzitutto per loro stessi: non hanno remore a intrufolarsi alle feste, recitare passi letterari che pensano di aver scoperto per primi e lasciarsi in un diner vestiti come in una farsa: non temono lo spettro del ridicolo perché il ridicolo, a quell'età e in quel tipo di relazione, non esiste. La descrizione dell'amore giovane è piena di insidie, ma forse la più pericolosa di tutte è credere che si possano dotare i propri personaggi di un'intelligenza abbagliante quando sono al culmine dello stordimento: suona bene sulla pagina, ma ha poco a che fare con la realtà.

Non a caso Luis, con il suo anelito per l'assoluto, ci interessa progressivamente di meno. Non che il suo sentimento non sia sincero, e non che l'autore non si sforzi di farlo sembrare tale. Ma questo è il romanzo di una donna concreta, che avverte una sottile crescente stanchezza per l'unicità. «C'è stato un giorno in cui sentii che ero cresciuta, o che comunque era arrivato il momento di farlo, perché l'esistenza ci chiede di vivere secondo le diverse stagioni. Chi non accetta questa regola finisce per marcire».

Le pagine più belle sono quelle in cui Elizabeth Dempsey si prepara a diventare Beth Barron e, nel congedare un'idea di sé, fiorisce. Quando prima di incontrare il futuro marito trascorre un weekend con un ragazzo che non le piace poi molto, avvertiamo la risoluzione, quasi la durezza, nel sacrificare l'originalità per una vita che può capire. Se c'è della malinconia in lei, non è la malinconia della costrizione, ma quella del controllo; la solitudine di chi è consapevole di sé e sa che neanche marito e figli, per quanto complici, saranno all'altezza della sua sensibilità nel decifrare il mondo.

Luis avrà pure telefonato, ma per essere un romanzo basato sull'amore passato, La Casa sulla roccia è sorprendentemente privo di fantasmi. Tolti i Bob Dylan, i Muhammad Ali e tutti gli ospiti che ricorrono, niente è più rilevante e affascinante del dominio che Beth esercita su se stessa. In un'epoca storica che ha quasi il terrore ideologico della monogamia, concludiamo la lettura con la sensazione che sia più quel che si è perso di quel che si è guadagnato.

E allora forse sì, i nostri genitori si lasciavano meglio di quanto impareremo mai a farlo noi. Una chiusura è una chiusura. Anche quando «parlavamo tanto, e sembrava che l'amore fosse il destino di tutti» e pensavamo che riagganciare il telefono, o spegnere il computer, non sarebbe mai stata la soluzione del problema.

 

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