FALLIMENTO SENZA PENTIMENTO: I TEA PARTY ALL’ASSALTO DI OBAMA: “IL DEFAULT E’ UN GRANDE IMBROGLIO”

Maurizio Molinari per "La Stampa"

Il default? È come la rivoluzione americana»: parlando ad un gruppo di colleghi sui gradini di Capitol Hill è il deputato repubblicano della Virginia Morgan Griffith che riassume la posizione del Tea Party sulla battaglia del debito che minaccia i mercati finanziari. «Dobbiamo compiere le nostre scelte guardando all'interesse di lungo termine degli Stati Uniti - dice Griffith - come fecero i patrioti che nel 1776 sfidando la Corona britannica, anche allora venne causato gran danno all'economia delle colonie, vi furono polemiche e forti contrarietà, ma il risultato nel lungo termine fu la nascita della più poderosa nazione della Terra».

Il default finanziario degli Stati Uniti non viene dunque vissuto come una catastrofe economica incombente bensì come un passaggio traumatico, necessario per riassestare i conti federali e rimettere in moto il Paese. «Non vi fate ingannare dal presidente Barack Obama - aggiunge Bryan Fischer, volto di punta dell'American Family Association, zoccolo duro della destra cristiana che si riconosce nel Tea Party - se il tetto del debito non verrà alzato non ci sarà alcun default».

Il leader indiscusso del Tea Party su tale fronte è Rand Paul, eletto senatore nel Kentucky alle elezioni di Midterm del 2010 che vide proprio l'affermazione di questa nuova anima della destra repubblicana, la cui priorità assoluta è il risanamento dei conti. «Parlare di default à da irresponsabili - ripete Paul nelle interviste ai talk show domenicali - perché gli americani versano ogni mese al governo 250 miliardi di dollari e gli interessi che paghiamo sul debito sono di 20 miliardi di dollari».

Ovvero: il gettito fiscale è sufficiente a pagare l'esposizione debitoria e non c'è dunque alcuna ragione per aumentare il debito federale arrivato a 16.699 miliardi. La sfida di Rand Paul a Casa Bianca, Federal Reserve, Congresso ed economisti di mezzo mondo è da far tremare i polsi: «Usiamo le entrate fiscali per pagare gli interessi sul debito agli investitori stranieri, a cominciare da Cina e Giappone, dilazionando i pagamenti per Previdenza e Sanità grazie a un'amministrazione più accorta e in breve tempo risaneremo le finanze federali».

È un approccio che fa venire i brividi al ministero del Tesoro e alle agenzie di rating di Wall Street ma Ted Yoho, deputato del Tea Party della Florida, obietta che «personalmente ritengo sia vero l'esatto contrario, il default porterà stabilità sui mercati finanziari perché il mancato aumento del debito testimonierà la serietà degli Stati Uniti nel volerlo ridurre».

Se dunque la Casa Bianca negozia con John Boehner, presidente repubblicano della Camera dei Rappresentanti, una formula per evitare il default la folta pattuglia di deputati del Tea Party - che al Senato ha Rand Paul e Tom Coburn dell'Oklahoma - punta in bel altra direzione. «Ci stanno imbevendo di informazioni fasulle - osserva Coburn - perché il tetto del debito non esiste, è solo una finzione per legittimare l'aumento illimitato della spesa federale». Da qui la conclusione di Mo Brooks, deputato dell'Alabama, che rilancia il verbo di Rand Paul: «Abbiamo entrate fiscali annuali pari a 10 volte gli obblighi del debito, mi spiegate come potremo mai fare ad andare in default?».

E Joe Barton, eletto in Texas, manda a dire a Obama: «La smetta di dire bugie, i debiti saranno pagati ma senza aumentare l'esposizione nazionale, faremo ciò che lui non vuole, tagliare la spesa».

Rispetto a tali intenzioni e terminologia le mediazioni di Boehner, come della maggioranza dei senatori repubblicani, sulle settimane di estensione del tetto del debito appaiono preistoria. Ciò che prevale nell'agguerrita pattuglia del Tea Party è l'approccio di Ted Cruz, il combattivo deputato texano che parlando per 21 ore di fila nell'aula della Camera contro il finanziamento della riforma della Sanità di Obama ha dato il via alla battaglia su shutdown e default.

Il cui primo intento è rivoluzionare le finanze federali anche se la prima conseguenza ha a che vedere con gli equilibri interni al partito repubblicano, delegittimandone la leadership. Si spiega così quanto sostiene il columnist conservatore del «New York Times» David Brooks: «Esistono oramai due partiti repubblicani, ed è giunta l'ora che si dividano».

 

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