
MIRACOLO ITALIANO: NEL 1945 ALL’IMPROVVISO SONO TUTTI ANTIFASCISTI. E UN PAESE SCONFITTO VINCE LA GUERRA – GIANNI OLIVA RACCONTA LE ZONE D’OMBRA IN ITALIA NEL DOPOGUERRA: “LA PRIORITÀ, SOLLECITATA DAGLI ANGLO-AMERICANI, ERA LA NORMALIZZAZIONE DELLA SOCIETÀ. CHE SIGNIFICA FAR TRANSITARE LA CLASSE DIRIGENTE DAL FASCISMO ALLA REPUBBLICA SENZA INDAGARE SU COLPE E CONNIVENZE PASSATE. DI QUI BIOGRAFIE PARADOSSALI, COME QUELLA DI MARCELLO GUIDA, DIRETTORE DEL CARCERE DI VENTOTENE, CHE DIVENTA QUESTORE DI MILANO...”
Estratto da “45 milioni di antifascisti”, di Gianni Oliva (ed. Mondadori) – pubblicato da “il Fatto Quotidiano”
GIANNI OLIVA - 45 MILIONI DI ANTIFASCISTI
Nel 1945 l’Italia è un Paese che ha dichiarato la guerra, che per oltre tre anni l’ha combattuta accanto alle armate di Hitler, che ha aggredito la Francia, la Grecia, l’Egitto, la Jugoslavia, l’Unione Sovietica, che sino all’8 settembre 1943 ha condiviso con il nazismo un nuovo ordine mediterraneo e che, per affermarlo, ha represso movimenti di liberazione, commesso crimini contro i civili, incendiato e incarcerato.
Soprattutto, è un Paese che quella “guerra fascista”, iniziata il 10 giugno 1940, l’ha persa su tutti i fronti e che a Malta, il 29 settembre 1943, ha firmato un “armistizio lungo” equivalente a una resa incondizionata.
Nei 20 mesi successivi ci sono statela cobelligeranza, la rinascita democratica attraverso l’attività dei comitati di liberazione nazionale e, soprattutto, la lotta partigiana nel Centro-Nord, con tutto ciò che essa ha significato in termini di scelta, di sacrifici umani e materiali, di voglia di riscatto.
Sono le esperienze di rottura con il passato che ci hanno messo dalla parte giusta della storia. Ma in quei 20 mesi ci sono state anche la Repubblica sociale, il collaborazionismo con i tedeschi occupanti, la riesumazione politica di Mussolini, lo scatenamento della guerra civile.
Sono, all’opposto, le esperienze di continuità con il passato, che pesano come macigni sulla coscienza e sul futuro del Paese. E c’è la diffusa zona grigia di coloro che non si sono schierati né da una parte né dall’altra e hanno atteso che qualcuno vincesse; la stessa zona grigia e anonima che nel Ventennio ha applaudito senza farsi domande e obbedito senza opporsi.
Capire se un Paese ha vinto o perso la guerra è tra le poche certezze offerte dallo studio della storia, perché è sufficiente confrontare le cartine geografiche prima e dopo il conflitto: se il Paese è diventato più grande significa che ha vinto, se si è rimpicciolito significa che ha perso. Confrontando la cartina dell’Italia nel 1939 con quella che il 10 febbraio 1947 esce ridisegnata dal Trattato di pace di Parigi, si capisce che il Paese ha perso: la linea del confine nordorientale è stata spostata di decine di chilometri, l’Istria, Fiume, la Dalmazia sono diventate Jugoslavia.
Quando mai a scuola ci è stato spiegato che l’Italia ha perso la guerra? Quando mai lo abbiamo letto con chiarezza nei manuali o ascoltato nei discorsi ufficiali? A tutti noi è stato spiegato che la guerra finisce il 25 aprile, giorno dell’insurrezione partigiana nei grandi centri del Nord, la stagione radiosa della liberazione. Vero: il 25 aprile conclude la pagina fondamentale della nostra storia, quella su cui si costruiscono le scelte, il confronto politico, il lavoro intellettuale che porteranno alla Costituzione repubblicana.
Ma “i 20 mesi della Resistenza – come ha scritto Guido Quazza – sono troppi per il sangue e il lutto che hanno provocato, e nello stesso tempo troppo pochi per il rinnovamento di cui l’Italia aveva bisogno”; troppo pochi per dimenticare che una dittatura non si regge per vent’anni soltanto sulla violenza, ma ha bisogno di complicità, di connivenze, di adesioni; troppo pochi per scordare che l’Italia non ha subito il fascismo, ma l’ha inventato, sostenuto, veicolato all’estero come modello; troppo pochi per nascondere che l’Italia ha perso la guerra, dopo aver sacrificato centinaia di migliaia di giovani, mandati a uccidere e a morire.
benito mussolini e claretta petacci fucilati a dongo 28 aprile 1945
Nel dopoguerra c’è tuttavia una priorità, sollecitata dagli anglo-americani e dalle forze economiche dominanti, e nella quale sono impegnati i partiti moderati, che sotto la guida di Alcide De Gasperi si apprestano ad assumere le redini del Paese e che lo governeranno per decenni: normalizzare la società dopo le convulsioni del conflitto e della guerra civile, garantire stabilità nella transizione dal fascismo alla democrazia, arginare le spinte più radicali del “vento del Nord”.
Bisogna che allo Stato sia assicurata continuità degli apparti amministrativi, che burocrati ministeriali, magistrati, prefetti, questori, alti ufficiali rimangano ai loro posti; che mantengano la propria posizione dirigenti del mondo dell’industria e della finanza; per estensione, che non ci siano epurazioni significative tra i professori universitari, i giornalisti, gli uomini dell’editoria, i responsabili dello sport. In altre parole, normalizzazione significa far transitare la classe dirigente dal fascismo alla Repubblica senza indagare su colpe e connivenze passate.
Di qui biografie paradossali, come quella di Marcello Guida, direttore del carcere di Ventotene dove sono detenuti Sandro Pertini e gli altri antifascisti: ai tempi delle bombe di piazza Fontana Guida è a Milano, questore nella città dove l’ordine pubblico è più emergenziale, ed è lui a sostenere la tesi dell’anarchico Pinelli suicida dal quarto piano della Questura perché inchiodato alle proprie responsabilità: o biografie che aprono interrogativi inquietanti come quella di Gaetano Azzariti, nel 1938 presidente del fascistissimo Tribunale della Razza, e nel 1957 presidente della Corte costituzionale.
Marcello Guida
BENITO MUSSOLINI
alcide de gasperi giulio andreotti