paola clemente

MORIRE DI FATICA NEI CAMPI - A PAOLA CLEMENTE L’HA AMMAZZATA IL LAVORO: 12 ORE AL GIORNO PER 27 EURO DI PAGA - LA SUA VITA D’INFERNO: SVEGLIA OGNI NOTTE ALLE DUE, POI, ALLE TRE, POI SUL BUS E DALLE CINQUE E MEZZO FINO AL POMERIGGIO A RACCOGLIERE UVA - PER LA SUA MORTE SONO FINITE IN MANETTE 6 PERSONE: SONO I PRIMI ARRESTI IN BASE ALLA LEGGE CHE REPRIME IL CAPORALATO

Car.Fes. per “la Stampa”

PAOLA CLEMENTEPAOLA CLEMENTE

 

Paola Clemente, 49 anni, il 13 luglio del 2015 è morta di fatica nei campi di Andria (in Puglia). L' ha ammazzata il lavoro: dodici ore al giorno per 27 euro di paga. Dalla sua morte è partita una inchiesta della Procura di Trani che ieri ha portato all' arresto di sei persone per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: sono i primi arresti in base alla legge del 2016 che reprime il caporalato.

 

Gli arrestati sono Pietro Bello, 52 anni, responsabile dell' agenzia interinale per la quale Paola lavorava, e i suoi collaboratori-dipendenti Oronzo Catacchio di 47, e Giampietro Marinaro di 29.

 

In carcere sono finiti anche Ciro Grassi, 43 anni, titolare dell' agenzia di trasporto, Lucia Maria Marinaro, 39 anni, moglie di Ciro Grassi e a sua volta lavoratrice fittizia mentre agli arresti domiciliari è finita Giovanna Marinaro, 47 anni, che secondo i magistrati avrebbe avuto il compito di reclutare le lavoratrici da spedire nei campi in condizioni quasi disumane.

 

Quella di Paola e di tante altre è una storia di caporalato travestita di modernità, come ha spiegato il procuratore tranese Francesco Giannella commentando l' operazione condotta dalla Guardia di finanza: «Il caporalato moderno nel nostro caso - ha detto il magistrato - si concretizza attraverso l' intermediazione di una agenzia interinale. Siamo di fronte ad una forma più moderna e tecnologica rispetto al passato». Ma il risultato è lo stesso: lavoratrici ingaggiate per dodici ore al giorno e pagate una miseria dopo che si sono massacrate di lavoro nei campi pugliesi.

 

La ricostruzione delle responsabilità degli arrestati è stata effettuata attraverso una serie di riscontri della Procura che nei mesi scorsi ha sentito diverse braccianti. Ne sono venute fuori storie strazianti di persone che sarebbero state disposte ad accettare qualsiasi forma di ricatto pur di non perdere quel posto di lavoro. Davanti ai magistrati le lavoratrici sentite hanno confermato di aver trovato notevoli differenze tra i soldi dichiarati in busta paga e quanto effettivamente percepito da loro, di aver abbassato la testa perché «a casa c' è il mutuo da pagare e i figli da sfamare». Ed era inutile provare a protestare contro questo sfruttamento: «Se fai la guerra contro di loro, perdi», ha dichiarato un' altra bracciante agricola sentita dagli inquirenti, «nessuno in passato si è permesso di ribellarsi, tutti sanno che il sistema è questo».

 

PAOLA CLEMENTE PAOLA CLEMENTE

Eppure il sistema è stato scardinato. Come? Attraverso un lavoro paziente di magistrati e finanzieri che ha consentito di scardinare il muro di omertà eretto sul ricatto del lavoro. Le indagini hanno finalmente ricostruito la notevole differenza tra i salari dichiarati e quelli percepiti dalle braccianti.

 

Il riscontro è stato possibile perché le lavoratrici all' insaputa dei «caporali» hanno sempre annotato minuziosamente i giorni di lavoro effettuati, le ore trascorse nei campi e la paga incassata. Dati finora tenuti nascosti in due quaderni che finalmente hanno visto la luce.

 

Circa mille le giornate di lavoro non contabilizzate per un corrispettivo di oltre 200 mila euro e un danno all' Inps di circa 55 mila euro. Ecco il caporalato moderno che ha ucciso Paola Clemente.

 

 

 

2. SVEGLIA ALLE 2 DI NOTTE, POI SUL BUS E DODICI ORE A RACCOGLIERE L' UVA

 

Car.Fes. per “la Stampa”

 

Eccolo l' inferno di Paola Clemente: sveglia ogni notte alle due, poi, alle tre, eccola a bordo di pullman che da San Giorgio Jonico nel Tarantino la portava nel vigneto di Andria, Nord Barese, dove arrivava all' alba. E lì dalle cinque e mezzo fino al pomeriggio a raccogliere uva. Paga giornaliera 27 euro.

 

Un massacro al quale Paola non ha retto e in quel campo il 13 luglio del 2015 si è accasciata, massacrata dal lavoro.

 

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«Il suo telefonino è sempre acceso sul comodino con la sveglia regolata alle due meno dieci. Suona ogni notte, è come se Paola ci fosse ancora».

 

Stefano Arcuri, il marito di Paola, raccontò di questo suo rito intimo nei giorni seguenti la morte di sua moglie. Ma lo squillo della sveglia per lui è anche una sirena che ricorda Paola e le tante vittime innocenti di un lavoro organizzato in maniera disumana. Stefano ha sempre chiesto giustizia per la fine di sua moglie. In ogni occasione di incontro con i sindacati ne ha ricordato l' esempio, il sacrificio con la speranza che altre donne non subissero gli stessi ricatti per il lavoro.

 

Nelle parole di Vincenzo, 42 anni, collega di lavoro di Paola, la ricostruzione della tragedia pochi giorni dopo la morte della bracciante: «Avevo visto che Paola non stava bene. Ce ne eravamo accorti un po' tutti. Ma lei veniva lo stesso a lavorare. Stavamo ripulendo i grappoli di uva dagli acini marci. Io ero a una decina di metri da lei.

 

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Non ho visto il momento in cui si è sentita male, ma verso le sette e mezzo del mattino ho sentito gli altri urlare». Poi solo fasi concitate, Paola che si accascia tra i filari di uva, l' arrivo dell' ambulanza e la rassegnata costatazione che per lei non c' era più niente da fare. Subito dopo la morte di Paola si aprì uno squarcio sul mondo del caporalato moderno, con testimonianze anche pubbliche di lavoratori che trovarono il coraggio di iniziare a dire qualcosa sulle condizioni disumane del loro lavoro.

 

Paghe da fame, mai superiori a cinquanta euro al giorno, talvolta aumentate di un po' se si accettava il lavoro. Ma quale lavoro? È sempre Vincenzo che parla: «Non sappiamo cosa faremo quella giornata. Ci ritroviamo nel piazzale in attesa del pullman che ci prende». E dove porta quel bus? «Chi lo guida ha spesso organizzato il lavoro, trovato l' accordo con il padrone dei campi o dell' azienda. Ma noi non sappiamo niente, saliamo a bordo e basta. Poi si parte, ma quasi mai sappiamo per dove». Eccolo il caporalato 2.0 così come lo hanno ricostruito gli inquirenti della Procura di Trani.

 

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Partiti da semplici appunti scritti sui quaderni delle lavoratrici, sono arrivati ai «file» dei computer nei quali erano registrate le giornate di lavoro, i dati veri e quelli truccati, le paghe da fame e le cifre buone solo per essere dichiarate all' Inps, per «tenere le carte a posto», per provare a sfuggire ai controlli.

 

Ma dopo la morte di Paola qualcosa è cambiato, il coraggio di dire come stavano effettivamente le cose è diventato un passaparola più forte del ricatto, una voce sempre più alta fatta circolare con la speranza che potesse sostituirsi all' obbligo del silenzio, alla paura di denunciare che voleva dire la perdita sicura della giornata e del lavoro. Che spesso è l' unica fonte di reddito.

 

Un' omertà imposta e controllata: «Guai - ha raccontato un' altra bracciante sentita dagli inquirenti a Trani - se qualcuno avesse sospettato di una nostra soffiata agli inquirenti, di una spiata a qualcuno che potesse accendere un faro sulle condizioni del nostro lavoro.

 

La certezza che su quello o altri pullman non saremmo salite mai più. È dura, ma non possiamo permetterci di rinunciare a quei 27 euro al giorno».

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