IL CINEMA DEI GIUSTI - “TIMBUKTU”, OVVERO COME VIVERE (E MALE) CON I JIHADISTI DENTRO CASA. UN OTTIMO FILM, CANDIDATO E FAVORITO PER L’OSCAR COME MIGLIOR FILM STRANIERO

Marco Giusti per Dagospia

 

Timbuktu di Abderrahmane Sissako

 

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Se volete vedere come si vive in Africa con le brigate jihadiste dentro casa, questo è il vostro film. Presentato in apertura al Festival di Cannes, ma non accolto con la serietà necessaria lo scorso maggio, Timbuktu di Abderrahmane Sissako, regista nato nel 1961 in Mauritania ma cresciuto nel Mali, ha avuto un percorso di grandi successi dopo che lo ha portato alla nomination all’Oscar per il miglior film straniero.

 

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Non solo è l'unico film africano in concorso per l’Oscar, ma è anche uno dei grandi favoriti, perché è tra i pochi davvero impegnati sulla realtà del proprio paese e sugli orrori che le brigate jihadiste stanno compiendo in gran parte dell'Africa. Siamo in un piccolo villaggio del Mali a non troppa distanza da Timbuctu, dove l'arrivo di un gruppo di jihadisti provenienti da varie parti dell'Africa, ha sconvolto la tranquilla vita degli abitanti. Anche perché i jihadisti, che parlano parte in arabo, parte in inglese e sono costretti a farsi tradurre tutto se vogliono farsi capire, hanno imposto assurde regole da dittatura islamica mal capita.

 

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Niente musica, niente sigarette, niente gioco del pallone, le donne non possono andare in giro senza scarpe, velo e guanti alle mani. L'adulterio è punito con la lapidazione. Le ragazze più belle sono costrette a sposarsi i capoccioni delle bande jihadiste senza potersi rifiutare. E la confusione verbale rispecchia un po' la confusione ideologica del gruppo di violenti che cerca di imporre con la forza la propria legge. E' grazie a questa idea mal digerita di giustizia e di legge che la vita degli abitanti del paesino verrà sconvolta.

 

Come verrà sconvolta la vita di una tranquilla famigliola che vive nel deserto in armonia quando un pescatore, certo Amidou, uccide una vacca di loro proprietà di nome GPS, sì come il GPS dei cellulari, solo perché voleva bere l'acqua del fiume e è finita a intralciare le reti. Il capo famiglia, Kidane, Ibrahim Ahmed, corre inferocito da Amidou e, per sbaglio, lo uccide.

 

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A questo punto viene arrestato e rapidamente processato dal tribunale jihadista. Ma più che la singola storia di Kidane, di sua moglie Satima e della loro figlioletta, Sissako ci offre un quadro preciso, senza retorica, della vita sotto la violenza nazista di questi gruppi islamisti, una violenza antica e assurda che cerca di imporre nuovi modelli di vita in zone del tutto estranee ai modelli islamici, mentre contemporaneamente si usano i cellulari, si parla di Zidane, trionfano i ripetitori sui tetti.

 

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Proprio da questo folle miscuglio di moderno e di logiche tribali che arrivano nel villaggio come scorie di questi ultimi vent'anni di violenza islamica in Africa e in Medio Oriente, nasce il lato più interessante del film, che sa ben dosare i suoi elementi. Così si alternano grandi sequenze di cinema, come la morte di Amidou, ripresa da un campo lunghissimo, a sequenze quasi comiche della confusione stessa dei rivoluzionari islamici, come il rapper passato alla jihad che cerca di incidere un messaggio senza riuscirci perché si muove ancora da cantante.

 

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Sissako ha il pudore di farci vedere di scorcio la terribile morte della coppia di adulteri uccisi a sassate che nella realtà venne ripresa coi cellulari e fece il giro del mondo e preferisci documentare con semplicità l'orrore piuttosto che costruirci enfaticamente grandi situazioni. E' un ottimo film con una grande costruzione visiva che ci mette di fronte a una situazione per noi solo apparentemente lontana. Solo l'inizio con le antiche statuine lignee che funzionano da tiro a segno per i jihadisti dimostra l'odio che hanno per qualsiasi cultura africana e per secoli di storia di un paese. In sala dal 12 febbraio. 

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