ezio bosso

1. ANCHE LA MONTAGNA INCARTATA DI SANREMO HA PRODOTTO UN FUORICLASSE: EZIO BOSSO 2. IL FESTIVAL DI UGOLE SENZA CAUSA E DI CANZONI SENZA MOTIVO HA OFFERTO AGLI ITALIANI UN PIANISTA E COMPOSITORE DI GRANDISSIMO TALENTO, AUTORE DI MUSICA COLTA CHE ESPRIME ''UN'ANIMA ENORME CAPACE DI PRENDERE IN GIRO LA MALATTIA DEGENERATIVA CHE GLI HA INVASO IL CORPO SENZA RIUSCIRE A INTORBIDIRGLI I PENSIERI. INSUPER-ABILE'' (GRAMELLINI)

EZIO BOSSO A SANREMO

 

1 - LA PICCONATA DI EZIO BOSSO

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Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”

 

«E chi mi porta via?». È stato lì, dopo la standing ovation dell' Ariston con gli orchestrali commossi fino alle lacrime, pudiche e mute, che Ezio Bosso ha avuto l'unico attimo di smarrimento. Quello di chi, dopo un quarto d' ora di magica sospensione della realtà vede riemergere la sua disabilità. La fatica di ogni giorno. Ogni ora. Ogni momento.

 

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Il pianista, compositore e direttore d'orchestra torinese ha fatto tre bellissimi regali, l' altra sera, agli italiani. Il primo: l' esecuzione al pianoforte del suo struggente «Following a Bird» («Sarebbe "inseguendo un uccellino" ma in inglese è più fighetto», ha ammiccato) che ha emozionato una platea abituata per decenni alle rime cuore amore.

 

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Il secondo: ha spiegato quanto sia importante, andando all' inseguimento di quell' uccellino, «perdersi per imparare a seguire: perdere è brutto ma non è brutto perdere i pregiudizi, perdere le paure, perdere il dolore» e più ancora ha ricordato quanto la musica conti perché «si fa insieme» e «noi (i musicisti) mettiamo le mani ma ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare». Parole bellissime in un Paese dove la voglia di ascoltare (la buona musica, i dialoghi del grande teatro, le opinioni altrui, le voci di chi è ai margini…) pare sempre più affievolirsi. Peccato: saper ascoltare, spiegava Wolfgang Goethe, «è un' arte».

 

Il regalo più grande, però, è stato il terzo: lo straordinario coraggio, arricchito da una leggerezza contagiosa e qua e là allegra, con cui si è offerto a milioni di italiani in tutta la sua dignitosa fragilità corporale. Non molti di quei milioni di italiani che erano davanti alla tivù, come confermano i numeri di Google fino all' altro ieri, lo conoscevano.

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Non molti sapevano che Ezio Bosso è stato un «enfant prodige», che ancora ragazzino teneva già concerti in giro per l'Europa, che per anni ha saputo mischiare più generi musicali, che ha suonato nei più grandi teatri del pianeta e diretto tra le altre le orchestre dell' Accademia Nazionale di Santa Cecilia, della London Symphony, del Teatro Regio di Torino… Forse ancora meno sapevano che pochi anni fa, nel 2011, fu colpito dalla Sla, la Sclerosi laterale amiotrofica che giorno dopo giorno ha fiaccato i suoi muscoli rubandogli, la stramaledetta, la forza fisica senza riuscire però a fiaccarlo nell'anima.

 

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Per millenni le persone fragili come lui sono state nascoste in casa, celate nelle stanze più scure come fossero una colpa così come pensava Gregorio Magno («Un'anima sana non albergherà mai in una dimora malata»), piazzati in remoti conventi tipo l'abbazia di Reichenau su un' isoletta del lago di Costanza come sant' Ermanno il rattrappito, affetto lui pure da una malattia degenerativa che gli impediva perfino di stare seduto ma non di comporre un capolavoro come il «Salve Regina». O rinchiuse più recentemente in istituti fuori mano come fecero col figlio Daniel perfino un intellettuale liberal come Arthur Miller o col figlio Eduard un genio imperfetto quale Albert Einstein.

 

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Per non dire dei disabili addirittura eliminati come «scarti», direbbe papa Francesco, dalle società più antiche («È ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani», scrisse Seneca teorizzando la necessità di annegare «anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati o anormali») e giù giù fino a quelle di pochi decenni fa.

 

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Vedi le leggi eugenetiche giapponesi abolite completamente solo nel 1996 o la selezione assassina del programma Aktion T4 voluto da Adolf Hitler che autorizzò i medici nazisti, attenzione alle parole, a «concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l' umano giudizio».

 

Ecco, offrendosi l'altra sera nel suo genio così grande e così gracile all' immenso pubblico di Sanremo, Ezio Bosso ha dato una bella picconata a quella lunga storia d' infamia. E una sberla a chi ancora oggi (avete presente Gasparri l'altra settimana?) usa la parola «handicappato» come un insulto o si avventura in spiritosaggini dissennate come ieri il blog spinoza.it: «È davvero commovente vedere come anche una persona con una grave disabilità possa avere una pettinatura da coglione». Al che il pianista ha risposto beffardo: «È perché cerco di pettinarmi da solo». Dieci a zero, palla al centro.

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Di più: il compositore ha dimostrato ancora una volta quanto possano avere senso le parole «diversamente abile». Non perché «politicamente corrette» o dettate da buona educazione ma perché hanno un significato pieno, denso, reale. Quanti «normodotati» troppo spesso così superficiali e sprezzanti con le persone fragili saprebbero a trasmettere l' arte, la poesia e le emozioni di «Following a Bird»?

 

2 - BOSSO, MAGIA OLTRE LA MALATTIA

Angelo Carotenuto per “la Repubblica”

Tweet Spinoza ezio bossoTweet Spinoza ezio bosso

 

L’uomo che ha stupito il festival è un italiano che gira il mondo in carrozzina e domani dirigerà la Lithuanian Orchestra a Vilnius. Non aveva mai inciso un disco. È arrivato all’Ariston e i telespettatori sono passati da 11 a 13 milioni. Si è svegliato in testa alla classifica di iTunes col suo esordio ( The 12th room), ha acceso il pc e ha trovato 145 mila persone in più iscritte alla sua pagina Facebook. Ezio Bosso dal 2011 fa i conti con una malattia neurodegenerativa che agisce sui neuroni.

 

Mercoledì era all’Ariston, suonava e sorrideva, mentre la violinista dell’orchestra in un angolo piangeva. Seduto ai bordi di una piscina a Bordighera, maglia scura e foulard coloratissimo, la mattina dopo racconta una rivoluzione. Fuma un paio di sigarette. È un uomo sereno.

 

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«Forse esiste un bisogno di ascoltare cose meno urlate e più sincere. Forse esiste una necessità di sentirsi meno Superman. Ai miei concerti vengono ragazzi giovani e anziani. Non è vero che la gente non va a sentire Bach e Chopin. C’è qualcuno a cui fa comodo raccontarlo, per paura che i giovani si accostino a certi autori. La musica è un’azione condivisa. Uno come me deve togliere la paura che ne esista di noiosa».

 

Quanto è speciale il piano che lei suona?

«I tasti del mio amico Steinway pesano quasi la metà rispetto agli altri: 29 grammi contro 56. Altrimenti non ce la farei a suonarli, mi stanco, si gelano le dita. A guardarmi ora sono persino fichissimo. Ho pure un preparatore, Pietro Azzola. Ma fino a poco fa era una discussione continua per avere un piano così».

 

Perché s’è dovuto trasferire a Londra?

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«Perché lì hanno avuto sin dall’inizio meno paura della mia musica. Io sono cresciuto con un fratello più grande di dodici anni e una sorella di sei. Avevamo una chitarrina jazz, un flautino, uno xilofono. I miei erano operai, non giravano soldi veri, presi lezioni da una prozia vecchissima, da bimbo pensavo fosse nata nel ‘600. Quando mi sono diplomato, ho scelto uno strumento che potesse darmi da vivere: il contrabbasso. C’erano più posti liberi nelle orchestre».

 

Se la ricorda la sua prima composizione?

«Avrò avuto 11 anni, l’età in cui Mozart era già a 300. Era bruttissima, scritta con una penna rossa. Sarà chiusa in qualche cassetto o in qualche cassonetto. A questo punto sospetto che verrà fuori postuma, ne sono certo».

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Da dove viene la forza della sua ironia? Su Twitter ha risposto al blog satirico Spinoza che prendeva in giro la sua capigliatura “da coglione”.

«Non mi sono offeso. Spinoza mi piace un casino. Potrei mai prendermi sul serio? Io sono già così, come mi vedete. Se facessi il tronfio, sai che noia. Solo la musica merita tutto l’impegno».

 

Crede di essere piaciuto perché la sua storia è esemplare?

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«Gli esempi veri non si vedono quasi mai. Ho messo in pubblico le mie mani e la mia faccia, Così come ascolto le storie degli altri, ogni tanto provo a raccontare un pezzetto della mia. Sono un essere umano, uno solo, se vi girate a guardare ne trovate tanti».

 

Lei è credente?

«Sono diversamente credente. Sono così ateo da non sopportare gli altri atei. Qualsiasi cosa riguardi la religione, nasce come un aiuto a vivere. Non è bellissimo? Che noia raccontarsi che tutto finisce. Il mistero è parte della fede cristiana ma può essere usato con ambivalenza. Credere è un equilibrio delicato».

 

In che cosa trova ristoro?

«Nell’ascolto degli altri, negli sguardi, nella capacità di farsi compagnia. Amo le preghiere. Il Padre nostro è magnifico. Credo nella poesia. In Emily Dickinson, oppure nella semplicità di Prévert. La musica mi ha dato una bella vita, mi ha fatto viaggiare, conoscere la filosofia, la pneumologia, la meteorologia. Mi ha fatto incontrare l’amore».

 

E cosa le ha tolto?

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«Da ragazzo mi impediva di andare a giocare a rugby, sport che amo più del calcio. Col calcio si litiga, col rugby si va a bere una birra. A scuola ero un caprone. La musica mi ha insegnato a incuriosirmi. Un amore non può toglierti qualcosa. Mi fanno ridere quelli che raccontano di essersi sacrificati per amore. Peggio per loro».

 

Cosa pensa che possa ancora cambiare nella sua vita?

«È strano. Sembra che prima di Sanremo io non avessi mai suonato in vita mia. La differenza è che adesso ve ne siete accorti. Ero su Facebook sin dalla sua apertura. Mi convinse un’amica dicendo che serviva a scambiarsi foto. Io sono gentile e rispondo a tutti. Ora con duemila messaggi al giorno come faccio? Me lo farò spiegare da Morandi. Solo che io devo pure studiare. Sono un po’ spaventato, poi mi dico che le cose succedono quando devono succedere».

 

Vale anche per quello che le è capitato cinque anni fa? Doveva succedere?

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«Per forza devo crederlo. Mi guardi. Ho forse un’alternativa? Restare fermi non serve. Certe volte muovendo un passo, si scopre una luce più bella».

 

Che cosa le manca oggi?

«Quei bei viaggi lunghi che facevo una volta. In Vietnam, in Argentina, nella Terra del Fuoco, alla fine del mondo».

 

Bosso, c’è qualcosa che le fa paura?

«Le paure servono. Non è utile scacciarle. Ho paura che la paura un giorno mi paralizzi. Questo sì. Ma non vale solo per me. Mi spaventa che possa accadere a chiunque».

 

 

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