AVANTI CON UN ALTRO SCUDO! - PURE SACCOMANNI PROVA A FAR TORNARE CAPITALI DALLA SVIZZERA: SANZIONI RIDOTTE E NIENTE AZIONI PENALI. MA RISCHIA UN FLOP

Vittorio Malagutti per "l'Espresso"

Occhi sbarrati e aria stralunata, il banchiere svizzero Raoul Weill è stato immortalato in una foto segnaletica sabato 14 dicembre, appena preso in consegna dall'ufficio dello sceriffo di Fort Lauderdale, in Florida. Fino a cinque anni fa Weill era il potente capo delle gestioni patrimoniali della più grande banca elvetica, l'Ubs. A metà ottobre la polizia italiana aveva fermato il manager a Bologna su richiesta della giustizia americana, che lo cercava invano dal 2009.

Quasi due mesi in cella al carcere della Dozza e poi l'estradizione negli Stati Uniti, dove il banchiere è stato rimesso in libertà solo dopo aver pagato una maxi multa da 10 milioni di dollari. Rischiava fino a cinque anni di carcere.

In Svizzera l'hanno presa male. Da quelle parti c'è perfino chi paragona l'arresto di Weill alle "rendition" dei terroristi islamici gestite dalla Cia in mezzo mondo. Le proteste di Berna, però, servono a poco. L'amministrazione Obama ha dichiarato una guerra globale ai furboni del fisco, anche a costo di mettere in galera i colletti bianchi accusati di aver dato una mano a migliaia di evasori Usa. In Italia invece, così come in gran parte d'Europa, l'approccio al problema è decisamente più conciliante.

Al Consiglio europeo convocato per giovedì 19 dicembre, i leader dei Paesi Ue sono tornati per l'ennesima volta ad esaminare - recita l'ordine del giorno - "i progressi realizzati nel settore della fiscalità". Niente diplomazia cow boy all'americana, però. Da questa parte dell'Atlantico la nuova strategia contro i paradisi off shore può essere riassunta in due parole: "voluntary disclosure", cioè dichiarazione volontaria.

Significa che i governi tentano di recuperare i capitali emigrati illegalmente puntando su un sistema di incentivi che, almeno in teoria, dovrebbero convincere gli evasori a restituire il maltolto. Una strategia che ricalca le linee guida elaborate dall'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico a cui aderiscono i 34 principali Paesi industrializzati, tra cui l'Italia. E infatti alla voluntary disclosure si ispira anche il provvedimento messo a punto dai tecnici del ministero dell'Economia guidati da Fabrizio Saccomanni.

"Sanzioni ridotte e stop all'azione penale in caso di dichiarazione omessa oppure infedele": questa in estrema sintesi sarà l'offerta del fisco nostrano (inserita nella legge di stabilità ora in discussione alla Camera) rivolta a chi ha esportato illegalmente capitali. «Non è un condono. E tantomeno uno scudo», ripetono al ministero dell'Economia nel tentativo di scacciare i fantasmi dei discussi (a dir poco) provvedimenti varati tra il 2001 e il 2009 dal ministro berlusconiano Giulio Tremonti.

L'obiettivo di Saccomanni pare comunque molto ambizioso. Il governo punterebbe a incassare almeno 5 miliardi grazie alla tassazione del tesoro che verrà rimpatriato. Secondo la maggior parte degli addetti lavori una simile previsione è quantomeno ottimistica. I tre scudi tremontiani facevano ponti d'oro agli evasori, che potevano mettersi in regola pagando un balzello minimo.

Il 5 per cento dei capitali dichiarati nella versione varata nel 2009, addirittura il 2,5 per cento nell'edizione di otto anni prima. Eppure, nonostante il colpo di spugna gentilmente offerto da Berlusconi & Tremonti ai criminali del fisco, i tre scudi fruttarono, in termini di gettito, meno di 8 miliardi su un totale di 175 miliardi riemersi dai loro nascondigli nelle banche off shore.

Basteranno, adesso, gli incentivi ben più modesti offerti da Saccomanni a convincere un esercito di evasori a mettersi in regola una volta per tutte? In generale, le previsioni d'incasso formulate dagli esperti oscillano tra i 2 e i 4 miliardi. Almeno un punto, però, gioca a favore del governo. Rispetto a qualche anno fa, quando Tremonti varò i suoi scudi, il clima globale è molto cambiato. Le pressioni internazionali hanno ristretto gli spazi di manovra dei Paesi, a cominciare dalla Svizzera, che tradizionalmente offrono un rifugio ai capitali in fuga dal fisco. Si calcola che la vicina Confederazione ospiti almeno 150 miliardi di denaro nero italiano.

Adesso, però, il rischio concreto per le banche elvetiche è quello di essere messe al bando dalla comunità mondiale della finanza. Ecco perché, pur tra molte resistenze, da Zurigo a Ginevra a Lugano, i gestori di patrimoni hanno infine dovuto rassegnarsi a nuovi codici di condotta.

"Weissgeldstrategie", strategia del denaro bianco: si chiama così la politica del governo di Berna che a poco a poco sta portando gli istituti di credito sulla strada di una maggiore trasparenza e collaborazione con le autorità di altri Paesi. La strada è ancora lunga. Risale solo a pochi giorni fa un primo progetto di legge elaborato dal governo federale per rendere obbligatoria la denuncia da parte degli intermediari nei casi di denaro proveniente da sospetta frode fiscale aggravata.Quest'ultima è cosa ben diversa dal semplice mancato pagamento delle tasse, in quanto presuppone quantomeno la falsificazione di documenti o altri raggiri.

I banchieri svizzeri, però, già da qualche tempo hanno aumentato le precauzioni. Al cliente straniero che vuole aprire un deposito viene richiesta una mole di informazioni sulla provenienza del denaro molto maggiore rispetto al passato.

È anche vero, però, che la barriera del segreto bancario resta comunque molto difficile da scavalcare nei casi di semplice evasione fiscale, non legata cioè a illeciti di rilevanza penale. Il governo italiano da anni sta tentando un'intesa con Berna per arrivare a un trattato che preveda la tassazione in Svizzera del denaro intestato, direttamente o indirettamente tramite società, a clienti italiani. Una tassazione articolata in due fasi: prelievo una tantum per il passato e poi in base alle nostre aliquote per il futuro.

Niente da fare, per il momento. Troppe le condizioni poste da Berna per tutelare l'anonimato dei depositanti stranieri. Atteggiamento comprensibile. È in gioco il destino del sistema bancario elvetico. Che però rischia grosso se non si allinea in fretta alle regole varate dalla comunità internazionale in materia di fisco.

L'Ocse punta sulla "voluntary disclosure" e formalmente anche gli Stati Uniti sono schierati su questa linea. La differenza è che gli americani sono pronti a usare le maniere forti, fino alle manette per i banchieri, pur di convincere la controparte a collaborare. Proprio la minaccia di pesanti sanzioni economiche, insieme alla multa per centinaia di milioni di dollari comminata all'Ubs, l'estate scorsa ha di fatto costretto il governo svizzero a siglare un'intesa con Washington che per la prima volta apre le porte delle banche elvetiche al fisco Usa.

Agli istituti di credito elvetici, adesso, viene "fortemente consigliata" l'adesione alle regole del Fatca. Ovvero la normativa varata dal governo Obama per reprimere l'evasione off shore. In pratica le banche si impegnano a comunicare all'Amministrazione Usa i nominativi dei propri clienti statunitensi. Un fatto che sarebbe sembrato semplicemente impensabile fino a un paio di anni fa. E invece sono già sette gli istituti elvetici di media e piccola dimensione che hanno accettato il nuovo regime. E numerose altre adesioni sono previste a breve. Miracoli della diplomazia cow boy.

 

 

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