BANANA SPLAT! IL DRAMMA DI SILVIO, MESSO CON LE SPALLE AL MURO E SENZA PIANO B

Marcello Sorgi per "la Stampa"

Martedì mattina, quando Thanatos ha bussato alla sua spalla con la punta della falce che annuncia la fine, Silvio Berlusconi non era affatto di buon umore. Non lo era da giorni. Le due settimane trascorse ad Arcore, per sfuggire al tritatutto romano del suo partito, non erano riuscite a ritemprarlo.

Quando il centralino gli ha annunciato Ghedini, tra i più assidui frequentatori dei giorni del ritiro a Villa San Martino, pensava a una delle tante telefonate di routine, dato che i guai giudiziari occupano ormai due terzi del suo tempo.

Ciò che non solo lui, ma anche i suoi avvocati non si aspettavano, era l'accelerata decisa dalla Cassazione per fissare al 30 luglio il giudizio definitivo sul processo Mediaset, per cui il Cavaliere è già stato condannato anche in appello a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici, cioè alla conclusione per via giudiziaria della sua ventennale carriera politica.

Tutt'insieme, l'anticipo della Suprema Corte veniva a sovvertire la strategia, chiamiamola così, abbozzata faticosamente dall'imputato e dal suo nutrito collegio di difesa, rafforzato di recente dall'ingresso del professor Franco Coppi, il penalista che assistette Andreotti nel processo palermitano per le accuse di mafia.

Era stato proprio Coppi, per dar subito un segnale di cambiamento - e chiudere con la strana commistione tra difesa nelle aule di giustizia e manifestazioni dei parlamentari Pdl sui gradini del Palazzo di giustizia di Milano -, a chiedere a Berlusconi di astenersi da qualsiasi dichiarazione o commento sulle sentenze e sulle iniziative della magistratura.

Un sacrificio accettato a denti stretti dall'interessato, che aveva dovuto mordersi le labbra, la scorsa settimana, quando un gruppo di supporters s'era assiepato davanti al cancello di Arcore e aveva acconsentito a togliere le tende solo dopo la promessa, ottenuta da Daniela Santanchè, che Silvio, invocato nei cori della sua gente, si affacciasse almeno per un salutino.

Le immagini del Cavaliere sorridente, ma insolitamente e forzatamente muto, che stringeva le mani dei fedelissimi, avevano fatto subito il giro del mondo. Ed erano rimaste come uno dei pochi documenti di questo strano esilio tra i muri di casa, a cavallo tra la sconfitta alla Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato contro i giudici di Milano e la pesante condanna subita nel processo per il «bunga-bunga» e il «caso Ruby».

Chi è riuscito a superare quel cancello, in queste due settimane di silenzio, ha visto un Berlusconi stanco, provato, consapevole che la morsa dei processi ormai lo stia stringendo. S'infuriava, si sfogava come fa sempre, tirando fuori dalla montagna di carte giudiziarie che ha studiato a memoria quelle che gli sembrano le prove di una persecuzione ad personam.

O ripetendo, con la precisione di un computer, le osservazioni dei suoi legali. Ma una via d'uscita, una ragionevole speranza, un verosimile calcolo delle probabilità, non sono usciti, né da questa lunga sessione di studio, né dalle notti in cui il Cavaliere ha cercato di tirar fuori un'idea di salvezza, uno di quei tipici lampi con cui ha contrassegnato la sua lunga vita di imprenditore e leader politico.

Se Berlusconi la soluzione non l'ha trovata quando l'appuntamento con la Cassazione era previsto per l'autunno, figurarsi adesso che neppure gli avvocati sono sicuri di fare in tempo a concludere le loro memorie in meno di quindici giorni. Il panico, l'agitazione e la confusione che hanno preso tutto intero il centrodestra, esplodendo ieri in Parlamento pubblicamente fin quasi alle soglie di una crisi, nascono essenzialmente di qui.

Perché il Cavaliere è sempre stato abituato ad avere, non uno, ma due piani per ogni evenienza delicata; non uno solo, ma almeno due responsabili operativi per ogni progetto; non una, ma due (o anche più) trattative aperte contemporaneamente.

È il suo caratteristico sistema binario, un metodo che la cerchia più ristretta di persone che lo frequentano conosce molto bene. Tanto per fare un esempio, è l'abitudine a sentire, prima di decidere, Gianni Letta e Fedele Confalonieri, sapendo che non la vedono sempre alla stessa maniera. È il raccontare a se stesso una cosa diversa da quella che farà. Spesso è anche il suo modo di tenersi un'idea di riserva e cambiarla all'ultimo minuto.

Stavolta invece tutto s'è consumato in un giorno e ora non c'è più tempo: sentirsi stretto e legato a una scadenza per cui è già partito il conto alla rovescia ha messo Berlusconi in uno stato d'angoscia. Nella sua mente, il piano originario doveva assomigliare a un missile a tre stadi. Il primo, ovviamente, rivolto verso la Cassazione: Berlusconi aveva accolto con soddisfazione (leggi: si era adoperato per) la scelta del nuovo presidente della Suprema Corte, Giorgio Santacroce, unanimemente considerato a lui non ostile.

Si aspettava che il ricorso che può decidere l'intero suo destino fosse indirizzato verso la terza sezione, che in passato lo aveva già giudicato e assolto. Al contrario, l'approdo dei suoi dossier all'impenetrabile sezione feriale (in cui tuttavia, a giudizio degli esperti, non figura neppure una «toga rossa»), e motivata a emettere la sentenza nel più breve tempo possibile, rende ardua qualsiasi previsione, e fa propendere per il peggio. Berlusconi si sente davanti a un plotone d'esecuzione, come lo ha definito in uno dei suoi sfoghi privati davanti ai difensori.

Il secondo stadio del missile era puntato sul governo e sul Pd. Pur tenendoli a bada, il Cavaliere aveva fin qui incoraggiato i falchi del suo partito a proseguire la campagna quotidiana di attacchi all'esecutivo delle larghe intese perché pensava, presto o tardi, di arrivare a un serio compromesso con l'alleato avversario.

La parola pacificazione, così come l'idea di un salvacondotto giudiziario che aveva fatto arrivare fino al Quirinale, prevedevano la disponibilità a farsi da parte in un ruolo notabilare (per esempio da senatore a vita) e la fine della guerra civile che ha avvelenato il ventennio della Seconda Repubblica. Berlusconi, va detto, non si era mai impressionato di fronte ai «no» o ai silenzi imbarazzati che aveva ricevuto, direttamente o per interposta persona. Ci vorrà tempo, ripeteva tra se e se, ma alla fine si convinceranno.

Oggi piuttosto comincia a temere, non solo che il Pd non si convinca, ma che possa cercare di approfittare delle sue difficoltà per farlo fuori una volta e per tutte. Un segnale in questo senso era arrivato l'altro ieri, con il voto dei Democrat a favore di un'autorizzazione a procedere contro di lui chiesta per una querela di Di Pietro.

E la disponibilità, in controtendenza, data ieri dal Pd alla sospensione dei lavori parlamentari decisa dalla Camera, non ha fugato i timori del Cavaliere. Il problema non è cosa faranno se noi ritiriamo l'appoggio al governo, ha spiegato ai suoi. Ma se la crisi la aprono loro, approfittando del nostro momento di debolezza.

Il terzo stadio riguarda le aziende di famiglia. Nel ritiro di Arcore, il problema s'è affacciato di frequente, ora con i volti preoccupati dei figli Marina e Piersilvio, tutelati dal fido Confalonieri, ora su iniziativa dello stesso Berlusconi, che non rinuncia a intromettersi su tutto e a dare consigli non richiesti appena accende un televisore.

Ma anche in questo caso, la prospettiva di avere a disposizione ancora qualche mese, e magari, com'è successo altre volte, di cavarsela per il rotto della cuffia, lo aveva spinto a rinviare ogni decisione, anche perché tra i processi aperti c'è anche quello civile intentato da Carlo De Benedetti per la Mondadori, e costato finora alle casse familiari più di cinquecento milioni di euro. In quindici giorni, una soluzione non s'improvvisa. E anche questo pesa sulla veglia insonne di Berlusconi.

 

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