CI VOLEVA LA “SINISTRA” DI RENZI PER SMONTARE L’ARTICOLO 18, CHE HA RESISTITO A 45 ANNI DI ATTACCHI - E PENSARE CHE LA NORMA CHE VIETA I LICENZIAMENTI SENZA GIUSTA CAUSA NON ERA NEL TESTO ORIGINALE DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

Enrico Marro per “il Corriere della Sera

 

RENZI POLETTI
RENZI POLETTI

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti).

 

Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

 

Mario Monti Elsa Fornero Mario Monti Elsa Fornero

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio.

 

Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor.

MAURIZIO SACCONI OCCHIO BENDATOMAURIZIO SACCONI OCCHIO BENDATO

 

In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

 

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali.

 

GINO GIUGNI 
GINO GIUGNI

Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento».

 

In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

 

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi).

mariano rumormariano rumor

 

Definizione questa che — molti si stupiranno — è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

 

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana.

CLAUDIO DOnAT CATTINCLAUDIO DOnAT CATTIN

 

Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio.

 

A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».

Ultimi Dagoreport

giorgia meloni ursula von der leyen donald trump dazi matteo salvini

DAGOREPORT – LA LETTERINA DELL’AL CAFONE DELLA CASA BIANCA È UNA PISTOLA PUNTATA ALLA TEMPIA DEI LEADER EUROPEI, CUI È RIMASTA UNA SOLA VIA DI USCITA, QUELLA COSIDDETTA “OMEOPATICA”: RISPONDERE AL MALE CON IL MALE. LINEA DURA, DURISSIMA, ALTRIMENTI, ALLE LEGNATE DI TRUMP, DOMANI, ALL’APERTURA DELLE BORSE, SI AGGIUNGERANNO I CALCI IN CULO DEI MERCATI. LA CINA HA DIMOSTRATO CHE, QUANDO RISPONDI CON LA FORZA, TRUMP FA MARCIA INDIETRO - SE LA “GIORGIA DEI DUE MONDI” ORMAI È RIMASTA L’UNICA A IMPLORARE, SCODINZOLANTE, “IL DIALOGO” COL DAZISTA IN CHIEF, NEMMENO LE CIFRE CATASTROFICHE SULLE RIPERCUSSIONI DELLE TARIFFE USA SULLE  AZIENDE ITALIANE, TANTO CARE ALLA LEGA, HA FERMATO I DEMENZIALI APPLAUSI ALLA LETTERA-RAPINA DA PARTE DI MATTEO SALVINI – ASCOLTATE JOSEPH STIGLITZ, PREMIO NOBEL PER L’ECONOMIA: “TRUMP NON AGISCE SECONDO ALCUN PRINCIPIO ECONOMICO, NON CONOSCE LO STATO DI DIRITTO, È SEMPLICEMENTE UN BULLO CHE USA IL POTERE ECONOMICO COME UNICA LEVA. SE POTESSE, USEREBBE QUELLO MILITARE’’

steve witkoff marco rubio sergei lavrov

RUBIO, IL TAJANI STARS AND STRIPES – IL SEGRETARIO DI STATO AMERICANO NON TOCCA PALLA E SOFFRE IL POTERE DI STEVE WITKOFF, INVIATO DI TRUMP IN MEDIO ORIENTE CHE SE LA COMANDA ANCHE IN UCRAINA. IL MINISTRO DEGLI ESTERI USA PROVA A USCIRE DALL’ANGOLO PARLANDO DI “NUOVA IDEA” DELLA RUSSIA SUI NEGOZIATI IN UCRAINA. MA IL MINISTRO DEGLI ESTERI DI PUTIN, LAVROV, SUBITO VEDE IL BLUFF: “CONFERMIAMO LA NOSTRA POSIZIONE” – TRUMP AVEVA OFFERTO DI TUTTO A WITKOFF, MA L’IMMOBILIARISTA NON HA VOLUTO RUOLI UFFICIALI NELL’AMMINISTRAZIONE. E TE CREDO: HA UN CONFLITTO DI INTERESSE GRANDE QUANTO UN GRATTACIELO...

diletta leotta ilary blasi stefano sala pier silvio berlusconi

FLASH – IL BRUTALE AFFONDO DI PIER SILVIO BERLUSCONI SU ILARY BLASI E DILETTA LEOTTA (“I LORO REALITY TRA I PIÙ BRUTTI MAI VISTI”), COSÌ COME IL SILURAMENTO DI MYRTA MERLINO, NASCE DAI DATI HORROR SULLA PUBBLICITÀ MOSTRATI A “PIER DUDI” DA STEFANO SALA, AD DI PUBLITALIA (LA CONCESSIONARIA DI MEDIASET): UNA DISAMINA SPIETATA CHE HA PORTATO ALLA “DISBOSCATA” DI TRASMISSIONI DEBOLI. UN METODO DA TAGLIATORE DI TESTE BEN DIVERSO DA QUELLO DI BABBO SILVIO, PIÙ INDULGENTE VERSO I SUOI DIPENDENTI – A DARE UNA MANO A MEDIASET NON È LA SCURE DI BERLUSCONI JR, MA LA RAI: NON SI ERA MAI VISTA UNA CONTROPROGRAMMAZIONE PIÙ SCARSA DI QUELLA CHE VIALE MAZZINI, IN VERSIONE TELE-MELONI, HA OFFERTO IN QUESTI TRE ANNI…

giorgia meloni elly schlein luca zaia vincenzo de luca eugenio giani elly schlein elezioni regionali

PER UNA VOLTA, VA ASCOLTATA GIORGIA MELONI, CHE DA MESI RIPETE AI SUOI: LE REGIONALI NON VANNO PRESE SOTTOGAMBA PERCHÉ SARANNO UN TEST STRADECISIVO PER LA MAGGIORANZA – UNA SPIA CHE IL VENTO NON SPIRI A FAVORE DELLE MAGNIFICHE SORTI DELL’ARMATA BRANCA-MELONI È IL TENTATIVO DI ANTICIPARE AL 20 SETTEMBRE IL VOTO NELLE MARCHE, DOVE IL DESTRORSO ACQUAROLI RISCHIA DI TORNARE A PASCOLARE (IL PIDDINO MATTEO RICCI È IN LEGGERO VANTAGGIO) – IL FANTASMA DI LUCA ZAIA IN VENETO E LE ROGNE DI ELLY SCHLEIN: JE RODE AMMETTERE CHE I CANDIDATI DEL PD VINCENTI SIANO TUTTI DOTATI DI UN SANO PEDIGREE RIFORMISTA E CATTO-DEM. E IN CAMPANIA RISCHIA LO SCHIAFFONE: SI È IMPUNTATA SU ROBERTO FICO, IMPIPANDOSENE DI VINCENZO DE LUCA, E SOLO UNA CHIAMATA DEL SAGGIO GAETANO MANFREDI LE HA FATTO CAPIRE CHE SENZA LO “SCERIFFO” DI SALERNO NON SI VINCE…

marina pier silvio berlusconi giorgia meloni

NULLA SARÀ COME PRIMA: PIER SILVIO BERLUSCONI, VESTITO DI NUOVO, CASSA IL SUO PASSATO DI RAMPOLLO BALBETTANTE E LANCIA IL SUO PREDELLINO – IN UN COLPO SOLO, CON IL COMIZIO DURANTE LA PRESENTAZIONE DEI PALINSESTI, HA DEMOLITO LA TIMIDA SORELLA MARINA, E MANDATO IN TILT GLI OTOLITI DI GIORGIA MELONI, MINACCIANDO LA DISCESA IN CAMPO. SE SCENDE IN CAMPO LUI, ALTRO CHE 8%: FORZA ITALIA POTREBBE RISALIRE (E MOLTO) NEI SONDAGGI (IL BRAND BERLUSCONI TIRA SEMPRE) – NELLA MILANO CHE CONTA IN MOLTI ORA SCOMMETTONO SUL PASSO INDIETRO DI MARINA DALLA GESTIONE “IN REMOTO” DI FORZA ITALIA: D'ALTRONDE, LA PRIMOGENITA SI È MOSTRATA SEMPRE PIÙ SPESSO INDECISA SULLE DECISIONI DA PRENDERE: DA QUANTO TEMPO STA COGITANDO SUL NOME DI UN SOSTITUTO DI TAJANI?