FITTO E I SUOI FRATELLI SANNO CHE IL BANANA-PAGATORE HA SGANCIATO QUASI 100 MILIONI DI EURO IN VENTI ANNI PER TENERE IN PIEDI IL BARACCONE DI “FARSA ITALIA”? CHI PRENDE IL SUO POSTO AL COMANDO, METTE ANCHE MANO AL PORTAFOGLI?

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera"

Sarebbero novantotto milioni di euro. Novantacinque, se si considera che tre milioni sono catalogati alla voce «prestito». Due volte il costo del Kakà dei bei tempi andati, ovviamente nel senso del fantasista brasiliano Ricardo. Oppure, quasi quanto l'acquisto di una stella del calcio mondiale del calibro del gallese Gareth Bale, comprato l'anno scorso dal Real Madrid alla cifra record di centouno milioni di euro.

Novantotto milioni. Tanto, al momento, è costata negli ultimi vent'anni a Silvio Berlusconi l'avventura di Forza Italia. Perché a tanto, insomma, ammonterebbe la cifra che l'ex premier ha anticipato di tasca sua per la sua creatura partitica, e che non ha ancora riavuto indietro.

Impossibile fare un conto al centesimo. Così com'è impossibile non dar conto al maligno e scontato adagio secondo cui, a conti fatti, con la ventennale avventura politica Berlusconi ha avuto da guadagnarci, e non da perderci.

Ma le persone che hanno avuto accesso per anni ai libri contabili di Forza Italia - seppur al riparo da microfoni e taccuini - ricostruiscono il costo «a nome Berlusconi Silvio» della macchina forzista arrivando a questa cifra. Novantacinque milioni. Ottanta dei quali sarebbero fidejussioni non ancora appianate, su cui l'ex Cavaliere s'è esposto personalmente con le banche.

Più un'ultima tranche di diciotto milioni - tre dei quali considerati «un prestito» - che da Arcore sarebbero partiti all'indirizzo di via dell'Umiltà (oggi piazza San Lorenzo in Lucina) nell'anno 2013. Questa storia, culminata con l'allarme rosso cui conti che Berlusconi ha lanciato ieri l'altro all'ufficio di presidenza del partito, comincia nel 1993.

Quando, lasciando inascoltati i consigli dei vari Gianni Letta e Fedele Confalonieri, il Cavaliere decide di «scendere in campo» e fondare un movimento politico. È la persona fisica Berlusconi, che - giova ricordarlo - è il figlio di un bancario, a muoversi in prima persona per avere i soldi per le coccarde e i manifesti, i palchi e gli spot.

Nel modo più semplice. Si presenta in banca, firma una fidejussione, ottiene i danari. Questi soldi, in anni in cui il finanziamento pubblico ai partiti è cospicuo, torneranno alle banche lasciando che dalle tasche berlusconiane non esca mai un centesimo.

Dal 2008, con la nascita del Pdl, il meccanismo trova una sua versione aggiornata. Grazie alla «cartolarizzazione» del finanziamento pubblico, che ritorna però sempre alle banche a parziale copertura dei soldi sborsati da Berlusconi. «Parziale», appunto, perché è proprio nel biennio 2007-2009 che cominciano le prime spese pazze.

«Attività collaterali del partito», le chiama qualcuno. «Il rilancio dei vecchi club», croce (tanta) e delizia (poca) anche oggi, secondo altri. Il buco di una ciambella perfetta si trasforma lentamente in una voragine. Anche perché, per una volta, il «Berlusconi premier» sega l'albero su cui il «Berlusconi leader di partito» è seduto. Come? Semplice. Con l'inizio del taglio ai costi della politica, che risale appunto all'alba dell'ultima stagione a Palazzo Chigi.

Le migliaia di euro di «credito» si fanno decine di migliaia, poi centinaia, quindi milioni. E si arriva ai novantotto barra novantacinque di oggi. «Non so nulla delle cifre. Ma sarà sempre meno di quello che le coop rosse hanno speso per il Pci-Pds-Ds-Pd», è la stilettata al veleno su cui mette il timbro (della voce) Renato Brunetta. «Soldi che recupereremo», giura Daniela Santanché, garantendo «visto che non può pagare sempre Berlusconi, adesso dovremo essere noi bravi a finanziarci».

Maurizio Bianconi, il ruvido e simpatico parlamentare toscano che insieme a Rocco Crimi ha gestito la cassa del Pdl, fa una postilla: «Di Forza Italia non so nulla. Le dico però che all'epoca del Pdl io e Crimi c'eravamo dati una regola. Mai un euro garantito dalla firma di Berlusconi. Perché sarebbe stato un incentivo a spendere... Il Presidente ci ha pagato giusto un paio di manifestazioni elettorali. Robetta, mi creda».

La «robetta» forse è andata persa per sempre. Ma sugli altri milioni, Berlusconi - a colpi di piccole tranche di finanziamento ancora da incassare e spending review da moltiplicare (darà l'addio per sempre a Palazzo Grazioli?) - non ha intenzione di soprassedere. «Siamo con l'acqua alla gola», ha detto l'altro giorno ai maggiorenti del partito. Qualcuno l'ha guardato perplesso.

Un po' come Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, che il giorno in cui chiusero l'accordo per andare a lavorare alla Fininvest si sentirono chiedere dal Cavaliere: «Non voglio nulla da bere, grazie. Ma che, per caso avreste un panino?». Leggenda narra che, una volta da soli, fu Raimondo a chiedere a Sandra: «Ma siamo sicuri che questo Berlusconi sia il miliardario che dicono?». Erano gli anni Ottanta. Quelli di un boom economico. Il suo.

 

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