NON SIAMO COSÌ “CAPACI” - I QUARANTENNI DI COSA NOSTRA NON VOGLIONO SEGUIRE LA STRADA STRAGISTA DI TOTÒ RIINA: ALLE ARMI E ALLE BOMBE, PREFERISCONO AFFARI E DENARO (TENDENZA MATTEO MESSINA)

Lirio Abbate per "l'Espresso"

La rottamazione secondo Matteo. Non Renzi, ma Messina Denaro: il padrino trapanese a cui guarda la nuova leva di capimafia quarantenni che stanno venendo su a Palermo. Giovani ma non rampanti, attenti a seguire l'antica tradizione attraverso i consigli di vecchi boss appena tornati in libertà dopo anni di detenzione. Una generazione incapace però di esprimere un leader. In teoria, sul trono di Cosa nostra c'è ancora Totò Riina, considerato il "presidente onorario" dell'organizzazione.

Lontano dal ruolo di amministratore delegato. A modo suo Riina è pronto a scatenare l'inferno, a uccidere e mettere bombe, ricalcando il suo vecchio modo di essere violento. Ma fuori, sul territorio, il suo verbo sanguinario sembra non trovare seguaci. E non li trova nemmeno in carcere dove il popolo della mafia, secondo le antenne investigative, non è in fibrillazione. Tutti vogliono restare sotto quella linea della sommersione e dell'invisibilità tracciata dopo le stragi del ‘92 da Bernardo Provenzano.

E ai quarantenni questa strategia pare andar bene. C'è la voglia di chiudere con il passato, con le "tragedie" accese dai corleonesi che mettevano l'uno contro l'altro i mafiosi per costruire il loro potere. Il piombo non conviene più, oggi l'idea vincente sono gli affari. Naturalmente illegali.

C e per chi era abituato a trattare queste storie di mafia si rende conto di come ora i boss sono di rango minore: si occupano di piccole cose, di piccoli business, di beghe tra famiglie e di commercianti abusivi a cui dare il via libera per piazzare il banchetto per la vendita di sigarette o del "pane con le panelle" in borgate o feste di quartiere. Altro che sfida allo Stato.

IL TRONO VUOTO. Chi comanda realmente tutta Cosa nostra? Gli investigatori non riescono a dare risposta, forse perché nemmeno i mafiosi lo sanno. O ancora non hanno trovato il loro nuovo padrino. E se c'è qualcuno che alza la testa, viene subito individuato e arrestato: come è accaduto al quarantenne Alessandro D'Ambrogio catturato in estate dai carabinieri di Palermo. Era il nuovo capo del mandamento di Porta Nuova, ed aveva messo le mani su gran parte della città. Ma di affari importanti ancora non ne parlava. E nemmeno di omicidi eccellenti.

Neanche Messina Denaro, dalla sua provincia trapanese, sembra essere assetato di sangue. Il latitante non vessa gli operatori economici ma investe nelle loro attività, creando un clima di complicità nella vasta popolazione che lo protegge. In questo modo ottiene rispetto senza minacciare. Anzi. Restaura il consenso sociale della cosca: diventa il referente di chi è in difficoltà, dagli imprenditori ai picciotti trapanesi. E rende arcaica l'immagine violenta di Riina.

Una chiave di lettura del declino corleonese viene da alcuni episodi. Occorre partire dal «giocattolo»: così tredici anni fa Pino Lipari, il tesoriere di Provenzano, chiamava Cosa nostra. E in quella parola c'è tutto: la storia della mafia che in Sicilia non è mai stata anti-Stato, ma solo Stato; l'eterna lotta tra guardie e ladri, considerata per decenni un rischio del mestiere. Con le stragi però il «giocattolo si è rotto».

Tutto è diventato personale, più duro, più difficile. Anche se tra i politici sono in molti quelli con cui «ci si può parlare», restano però tanti magistrati, tanti investigatori che non ne vogliono sapere di tornare alla pacifica convivenza di prima, quella degli anni Ottanta. E poi anche la mafia non è più quella di una volta. La "commissione" - in cui i capi decidevano omicidi e affari di rilievo - non si riunisce da molti anni, e nemmeno lo potrebbe fare perché i suoi componenti, a partire da Riina, sono in galera.

I capimandamento e i capimafia solo in pochissimi casi vengono "democraticamente" eletti tra gli uomini d'onore come vuole la tradizione. Quasi sempre si procede per nomina diretta, come aveva stabilito Riina alla vigilia della folle stagione delle bombe. Cosa nostra è stata commissariata, da ormai troppi anni, tanti, perchè dal basso non salga il malumore.

I TEMPI NUOVI. Il geometra Pino Lipari al servizio dei corleonesi nel 2000 voleva che fosse eletta una nuova "commissione". Lo aveva detto a Provenzano, che all'epoca era per tutti il Capo, ma formalmente era solo il sostituto degli assenti: faceva le veci dei boss reclusi. Secondo Lipari - che si prendeva queste libertà perchè conosceva bene il padrino corleonese - «quello che è stato deciso allora non tutto si può proteggere, non tutto si può avallare e condividere. Perché nel passato sono state fatte cose giuste e cose sbagliate».

Un commento condiviso pure da altri capimafia tanto da arrivare ad ammettere che «le stragi sono state la peggior disgrazia che sia mai capitata a Cosa nostra» e a questo punto, carcerati o non carcerati, occorre poterlo dire chiaramente. Ma per il resto, per la ricostruzione del «giocattolo», Provenzano rivolgendosi a Lipari dice: «Tu me lo insegni, ingegnere, tempo ci vuole...».

Sì, ci vorrà ancora molto tempo per ricostruire quello che in questi anni la magistratura e gli investigatori hanno smantellato con arresti, sequestri di beni e condanne all'ergastolo. Grazie a queste azioni giudiziarie il «giocattolo» è ancora rotto e il suo burattinaio Riina sembra in gravi difficoltà operative.

SFIDA DI PIOMBO. Un segnale chiaro diretto a Riina e alla sua famiglia arriva a gennaio 2010 con un omicidio. Nelle campagne di Corleone viene ucciso a colpi di fucile un imprenditore, Nicolò Romeo. È il titolare di un grande mangimificio: dalle indagini emerge che ha sempre pagato il pizzo ai Riina, che ha assunto persone indicate dai corleonesi, e che rappresenta una delle poche imprese che ha contribuito al sostentamento finanziario della famiglia di Totò.

Insomma, l'omicidio è un attacco diretto al capo di Cosa nostra. Le intercettazioni realizzate dopo l'agguato indicano con certezza che non sono stati i Riina ad ordinarlo, tanto che Gaetano Riina, fratello del padrino, si attiva per scoprire chi aveva ammazzato il loro amico e finanziatore. Il gesto lascia pensare ad una sfida. Ma lanciata da chi? In altri tempi nessuno avrebbe osato sfiorare un uomo protetto da Riina. Ma i tempi cambiano anche dentro i clan.

Significativa potrebbe essere la conversazione di un capomafia di grande rispetto, Nino Rotolo, coinvolto in passato anche nella "Pizza connection", con un altro mafioso. È stata registrata poco prima dell'arresto di Provenzano mentre Rotolo è agli arresti in casa: il boss spiega al suo interlocutore che i vecchi palermitani scappati durante la guerra di mafia aperta dai corleonesi negli anni Ottanta non potevano tornare a Palermo perché il loro ingresso in città era stato categoricamente proibito da Riina. Detto ciò, se adesso si dovesse apprendere del ritorno degli "scappati" a Palermo, in particolare i componenti della famiglia Inzerillo, significherebbe che il divieto imposto da Riina non ha più valore. E pure la sua parola.

VIVI E LASCIA VIVERE . Il cambio di mentalità mafiosa si nota in Cosa nostra nella nuova strategia applicata da Matteo Messina Denaro. Per alcuni anni l'ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, si è messo al servizio di agenti segreti avviando una corrispondenza di "pizzini" con il latitante trapanese. Il boss e il politico - che in passato ha avuto problemi giudiziari -, si scambiano opinioni e analisi nelle loro lettere che poi un'inchiesta ha reso pubbliche.

A quel punto Vaccarino ammette di avere scritto a Messina Denaro perché coinvolto in una operazione dei servizi segreti e voleva fare di tutto per farlo arrestare. Di fronte a questa operazione, Riina sarebbe andato su tutte le furie ordinando una carneficina. Ma Messina Denaro non si mostra turbato: Vaccarino da anni continua a girare libero per Castelvetrano, paese di cui è pure originario il capomafia trapanese, senza il timore di subire vendette.

E pochi mesi fa il latitante ha ordinato alla sorella, Patrizia Messina Denaro, arrestata la scorsa settimana dai pm di Palermo, di "non toccare" l'imprenditore trapanese, Giuseppe Grigoli, uno dei tesorieri del boss, che secondo "radio carcere" stava per iniziare una collaborazione con la giustizia. I detenuti vicini al padrino si erano messi subito a disposizione per tappare la bocca a Grigoli, ma Messina Denaro ha scelto la strategia del silenzio e della sommersione, evitando ogni azione violenta, spiegando che «da morto fa più danno che da vivo», dunque: «che nessuno lo tocchi».

L'ASSE PALERMITANO. Al capomafia trapanese interessano gli affari. Davanti a questo obiettivo secondo alcuni investigatori Messina Denaro sarebbe anche disposto a chiudere la porta in faccia a Riina. Ma sono solo ipotesi. Non si possono dimenticare i forti collegamenti che il latitante ha con Palermo, in particolare con il mandamento mafioso di Brancaccio, guidato da Giuseppe e Filippo Graviano, che nonostante il carcere duro a cui sono sottoposti riescono a dare indicazioni su omicidi, come quello di Francesco Nangano ucciso lo scorso febbraio.

Un delitto eclatante che sarebbe stato ordinato dai "fratelli" per far pulizia all'interno del loro clan. Messina Denaro e Graviano sono da sempre legati, per iniziative economiche concluse insieme e poi perché la sorella del latitante ha sposato uno dei Guttadauro, una delle famiglie mafiose più in vista in quel mandamento.

L'ANTIMAFIA DIVISA. Messina Denaro sembra guardare alla finestra ciò che accade in Cosa nostra. Ma anche quello che si verifica negli uffici giudiziari di Palermo la cui Direzione distrettuale antimafia è titolare delle indagini per la sua ricerca.
Un anno fa davanti al Csm sfilavano alcuni pm di Palermo: deposizioni che hanno innescato la procedura di trasferimento per Messineo, poi archiviata. Per il Consiglio superiore l'assenza di coordinamento da parte del procuratore avrebbe influito sulla mancata cattura proprio di Matteo Messina Denaro.

A sollevare il caso è stato uno dei procuratori aggiunti, tirando fuori un episodio accaduto durante un blitz del giugno 2012 nell'agrigentino. Quel raid avrebbe fatto saltare la pista che conduceva all'ultima primula rossa di Cosa nostra.

Fu Messineo a volere quell'operazione a tutti i costi, contro il parere di chi, come il procuratore aggiunto Teresa Principato, titolare delle indagini, aveva individuato in Leo Sutera, uno dei 49 che dovevano essere catturati, il canale che portava fino al ricercato numero uno. Per molti dei fermati il gip non convalidò il fermo, tranne che per Sutera.

Quella vicenda ha reso ancor più pesante il clima della Procura. Basta pensare che mentre uno dei pm, Marzia Sabella, coordinava l'ultima inchiesta che ha portato all'arresto dei favoreggiatori del boss e al sequestro dei suoi beni, il procuratore Messineo firmava note di valutazione negative su di lei, inviate al consiglio giudiziario.

Marzia Sabella è stata insieme a Pignatone e Prestipino la pm che ha coordinato l'inchiesta per l'arresto di Provenzano: ora da quattro anni si occupa della caccia a Messina Denaro. Ma secondo il procuratore avrebbe avuto «difficoltà di adattamento» nello svolgere procedimenti per piccole truffe on line che le erano state assegnate, e da questo nasce il giudizio negativo. Messineo pensa di poter arrivare al latitante con le truffe on line? Forse i problemi di leadership non sono solo in Cosa nostra, ma anche tra chi deve combatterla.

 

 

Toto RiinaTotò Riina dietro le sbarrematteo messina denaro Boss Matteo Messina Denaro - Identikit elaborato dalla poliziaSTRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA STRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA BERNARDO PROVENZANOFRANCESCO MESSINEO PROCURATORE CAPO DI PALERMO jpeg Matteo Messina Denaro

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