FARAONE SALVACI TU - ALLA DEMOCRAZIA, L’EGITTO PREFERISCE IL “DITTATORE” AL SISI: SENZA DI LUI È IL CAOS E SENZA ORDINE L’ECONOMIA NON RIPARTE

Francesca Paci per ‘La Stampa'

Sotto la statua del padre dell'economia nazionale Talaat Harb, in uno dei crocevia più trafficati del centro del Cairo, quattro cartelli invitano a votare «sì» al referendum per la nuova Costituzione. Oggi e domani il turbolento Egitto post Mubarak torna alle urne sperando di chiudere la lunga transizione culminata con il bando dei Fratelli Musulmani. Ma per quanto i caffè e la metro siano pieni di cittadini intenti a leggere i 247 articoli, il paese pensa già al prossimo voto, quello che a furor di popolo dovrebbe incoronare successore del reietto presidente Morsi il ministro della difesa Abdel Fattah al Sisi.

Il condizionale è d'obbligo giacché l'architetto del golpe popolare dell'estate scorsa non ha ancora sciolto le riserve sulla propria candidatura lasciando il campo al nasseriano Sabbahi, a Amr Moussa, al generale Sami Hanan, all'icona del vecchio regime Shafik e all'islamista moderato Aboul Fotouh.

Mentre però l'ex capo dell'intelligence militare che Mubarak definiva «astuto come un serpente» e che l'un tempo potente Morsi chiamò al posto di Tantawi in virtù delle credenziali religiose garantite dalla figlia assai velata pesa costi e benefici, il 90% degli egiziani (fonte Gallup) vede in lui l'argine al caos.

«Non c'è nessun altro» spiega Samer Askandar nella sua oreficeria nel suq Khan al-Khalili, paradiso degli ormai rari turisti a ridosso del quale è cresciuto Sisi. Samer aspetta l'annuncio: «La prossima settimana metterò in vendita dei ciondoli con il nuovo presidente». Una miscela di orgoglio, scaramanzia, disperazione. La collega Nermin Nazim ha già lanciato con successo una linea di bracciali con il nome del salvatore della patria dal «fascismo islamico».

«È l'uomo che dopo le parlamentari del 2010 suggerì all'esercito di prepararsi alla rivolta imminente e tenersene fuori» ricorda il giornalista ultraottantenne Mohammad Hassanin Heikal, già consulente di Nasser, Sadat, Mubarak e oggi, pare, vicinissimo al nuovo Faraone. Racconta chi lo conosce che il ministro della difesa sia «atipico» anche come militare: «Non grida, non cede all'ira, non è mai dove pensi che possa essere eppure ti guarda».

In piazza Tahrir, icona del 25 gennaio 2011, la presenza del 60enne el Sisi è invisibile e ingombrante. Un sobrio monumento color sabbia ha preso il posto delle tende e le auto sono tornate rumorose. I venditori di gadget rivoluzionari sono spariti. Il messaggio è ordine, disciplina, normalità.

Ma per annusare l'umore diffuso basta fare un giro nei negozi, e non solo in quelli «militanti» come Kakao Lounge, la pasticceria di Garden City che vende chili di cioccolatini con il sorriso enigmatico del generale a 7 pound l'uno (meno di un euro). Lo stesso sorriso, vera reminiscenza della Sfinge, occupa quasi tutte le vetrine, affermazione identitaria prima ancora che conscia scelta politica.

«L'economia non riparte senza la sicurezza e noi abbiamo solo Al Sisi» afferma Khaled el Hindi titolare del bazar sotto la sede dei Tamarod, il movimento che raccolse milioni di firme contro Morsi. L'ufficio è chiuso e Mohammed Khamis, uno degli organizzatori, risponde al telefono dalla natia Hurghada dove è tornato a fare il tour operator: «Non mi piace l'idea che l'esercito sia il nostro destino, ma chi altro c'è?».

Da Luxor la guida Francis Amin Mohareb conferma la paura della valle dei templi memore di quando i Fratelli Musulmani nominarono governatore un membro della Gamaa Islamiya, i terroristi degli attentati del 1997: «I turisti iniziano a tornare, Al Sisi è la soluzione».

Lo è davvero? «È l'islamofobia a spingere Al Sisi, ma non ci sono alternative, le rivoluzioni procedono a ondate, anche quella francese ricorse a Napoleone dopo dieci anni di ingestibilità» nota il politologo Said Sadek in un caffè di quella Cairo American University dove gli studenti, al pari di sua figlia, sognano le democrazie occidentali. «Questa non è Stoccolma, l'idealismo deve cedere al realismo anche a costo di un ritorno temporaneo all'autoritarismo militare» chiosa.

A dissentire in realtà sono parecchi. I sostenitori dei Fratelli Musulmani che stazionano davanti all'università al Ahzar e a nome dei quali l'analista Ahmed Neguib ammonisce: «Se vince Al Sisi sarà il caos perché l'esercito diventerà il bersaglio del terrorismo».

Le femministe come Dalia Ahmed, che non perdonano al ministro della difesa l'avallo dei testi di verginità imposti dall'esercito alle manifestanti di Tahrir. I rivoluzionari che aspettano la scarcerazione dei leader anti golpe capitanati da Ahmed Maher. Ma anche tra i militari, rivela una fonte, regna lo sconforto: «Se Al Sisi viene eletto saremo trascinati tutti nella gestione dell'ordine pubblico avendo in cambio solo le critiche per le difficoltà di un paese che non si rimetterà in piedi presto».

Eppure chi altro se non Al Sisi, ammette in un ristorante di Zamalek l'attivista Daoud Bakker. Lui nicchia, lascia crescere il mito. L'artista Khaled Hafez, star della Biennale, prepara dei ritratti stile Andy Warhol con il volto del generalissimo moltiplicato per quattro, salvifico Grande Fratello post moderno.

 

 

Al SisiOppositori di Morsi a Piazza Tahrir JOHN KERRY E MOHAMMED MORSI jpegSCONTRI IN EGITTO DOPO LA DEPOSIZIONE DEL PRESIDENTE MORSI SCONTRI E PROTESTE IN EGITTO Manifestazione in Egitto contro i Fratelli Musulmani MOHAMMED MORSY DEI FRATELLI MUSULMANI

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