MALEDETTA PRIMAVERA! - IL SOGNO DELLA “RIVOLUZIONE” LIBICA SOFFOCATO DALLE VENDETTE TRIBALI E DALL’AFFERMAZIONE DELL’INTEGRALISMO ISLAMICO - A SIRTE, RABBIA PROFONDA CONTRO I “RIVOLUZIONARI” CHE SACCHEGGIANO E SI DIVIDONO IL BOTTINO - L’EX ROCCAFORTE DI GHEDDAFI A TRIPOLI, BAB-EL-AZIZIYA, “OKKUPATO” DA SPACCIATORI E MIGNOTTE - IL GOVERNO SCARICA SUI SEGUACI DI GHEDDAFI LA RESPONSABILITA’ DELL’ATTENTATO DI BENGASI…

Domenico Quirico per "la Stampa"

Ci siamo illusi, distratti: dopo le potature di una guerraccia credevamo i libici liberi e nuovi. Convinti che il soffio eroico della rivoluzione avesse rotto l'aria morta di quarant'anni e che niente potesse più sconfiggere quell'ardore. Ci sbagliavamo, noi pensosi aruspici occidentali: dopo un anno di fermento e sgomento, tutte le putrefazioni, l'abitudine alla violenza, la tentazione tribale che sconnette e divide, una collosa fobia antioccidentale che pensavamo di aver sepolto sotto qualche bomba scagliata contro le ciurme di Gheddafi, il cinismo degli enormi interessi petroliferi, sono di nuovo messe in fermento. Ogni passione, buona e cattiva, vi trova il suo conto.

Un luogo, che aiuta a capire questa Libia sospesa, incerta, intossicata dai veleni, potenti, del suo passato: Bab-el-Aziziya, la caserma, il palazzo il covo del tiranno, nel centro di Tripoli, sfondo dei suoi misteri e delle sue scenografie pagliaccesche, lugubre monumento a se stesso e minaccia cementizia sui sudditi coattivamente costretti al sogno della sua «rivoluzione».

Uno dei primi gesti della rivoluzione è stato quello di affidarlo alla liberatoria attenzione delle ruspe, di ridurlo a rovina, di mettere a nudo quei cortili quelle costruzioni che, un tempo, era pericoloso sfiorare perfino con il pensiero. Ebbene: oggi Bal el Aziziya, i suoi calcinacci, sono diventati oscena corte dei miracoli, pericolosa e sudicia, dove trovano rifugio prostitute e spacciatori, diseredati e senza casa.

Le rivoluzioni arabe, qui e altrove, non sono piane, si contorcono, cambiano strada, ci illudono e disilludono: iniziate sotto l'uniforme di parata della lotta contro la tirannide, si mutano nei cenci di un tribalismo feroce o della tentazione integralista. C'è dunque una controrivoluzione in Libia?

Affidata all'alleanza, micidiale e strumentale, dei trinceristi del vecchio regime e del terrorismo ecumenico, salafita e alqaedista: quell'alleanza che Gheddafi aveva invano brandito contro l'Occidente, come vendetta, mentre ormai i suoi fati precipitavano verso la sconfitta e la morte.

I kalashnikov, che migliaia di miliziani ritornati al clan e alla tribù dopo le posticce alleanze della «rivoluzione», continuano a imbracciare e si rifiutano di rendere, e il rampollare dell'odio contro l'America che sembrava seppellito nei giorni della lotta comune al tiranno, delle bandiere a stelle e strisce dipinte sui muri insieme a quelle di Francia e Gran Bretagna, gli amici, gli alleati, i salvatori, sono il riflesso di questa pericolosa incertezza.

E rischiano di contare più delle schede elettorali con cui il 7 luglio i libici per la prima volta da quarant'anni hanno scelto i loro governanti; e della effervescenza delle radio, delle televisioni, dei giornali, fatti da giovani, che trasmettono in inglese fiere della loro libertà, e della società civile che si organizza e si salda in mille associazioni che denunciano strepitano elencano la novità, cioè i diritti.

La fretta con cui il governo libico, ieri, per trovare un colpevole alla strage di Bengasi, ha fatto appunto riferimento alle congiure dei seguaci di Gheddafi e al «terrorismo» sono anche scorciatoia per distorcere l'attenzione dai limiti e dai difetti di una transizione che stenta e si intoppa.

La Libia resta malata, soffre di una infezione nascosta che ne menoma il vigore e ne smorza gli ardori, una inquietudine oscura come quando si attraversa il luogo dell'agguato, come quando si fiuta il tradimento. È difficile dimenticare Gheddafi, voltare pagina. E non soltanto perché la maggior parte dei gerarchi si sono salvati con la fuga e vivono a Dubai, in Tunisia, in Turchia, forniti di denaro e di volontà di rivincita.

Certo i fatti inquietano: nelle ultime settimane c'è, evidente, un'accelerazione di attentati, una strategia scandita di provocazioni e delitti: il 3 agosto nella capitale una autobomba, una settimana dopo a Bengasi l'assassinio del generale Mohamed Hadia, uno dei primi alti ufficiali che avevano disertato per passare nelle file dei ribelli, il 19 ancora due autobombe a Tripoli davanti al ministero dell'Interno e a un'Accademia militare; il giorno dopo un attentato contro un diplomatico egiziano. Ora l'assalto omicida al consolato americano.

La guerra civile ha lasciato ferite profonde, lunghi solchi di vendette e contro vendette, che lentamente trinciano e sminuzzano la rivoluzione. A Sirte, ad esempio, considerata un bastione della Guida suprema, dove i resti dell'ultimo convoglio di Gheddafi arrugginiscono ancora all'ingresso della città vicino alla centrale elettrica dove venne colto dalle bombe, la rabbia è profonda. Contro i rivoluzionari venuti, si accusa, per saccheggiare e dividersi il bottino. L'odio: la maledizione dei vinti. La rivoluzione è anche un regolamento di conti.

Gheddafi ha lasciato in eredità, nella mente di ognuno, la violenza, subita e inflitta, mai regolata da uno Stato che ne abbia il monopolio e la sappia usare secondo giustizia, la tentazione a utilizzare, per farsi ragione, i metodi dell'antico regime. Questo è il vero terribile pericolo che può spossare il Nuovo, attorno al quale si aggrumano i complotti.

La Libia è uno dei grandi obiettivi dei tetri becchini di Al Qaeda, nella sua ultima trasformazione, quella saheliana e africana: per il petrolio e per la posizione strategica, tra le frontiere dell'Africa nera e il Mediterraneo, mare gonfio di speranze e di tensioni. È dalla Libia che è partito, e si è armato per la sua operazione più riuscita e spettacolare, il califfato di Timbuctù, uno Stato incuneato nel cuore del Sahel.

 

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