IL SANTO PROTETTORE DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA? SANTAPAOLA! - I ROS INTERCETTARONO IL BOSS CATANESE NEL 1993, MA I CARABINIERI NON LO ARRESTARONO. ANZI: NE FAVORIRONO LA LATITANZA - SECONDO I PM SERVIVA LIBERO PER GESTIRE IL PATTO CON LO STATO (COME PROVENZANO) - PER L’ACCUSA LO STATO PREFERIVA TRATTARE CON LUI E “BINNU” ANZICHE’ COL SANGUINARIO RIINA…

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera

Uno dei prezzi pagati dallo Stato alla mafia al tempo delle stragi fu la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Ma non solo lui. Anche un altro boss di primissimo piano, secondo l'accusa, venne lasciato in latitanza, perché utile a stringere accordi con le istituzioni e fermare la strategia delle bombe. Si tratta di Nitto Santapaola, capo di Cosa nostra catanese; nella primavera del 1993 i carabinieri del Ros lo intercettarono ma evitarono di arrestarlo. Forse fecero addirittura in modo di farlo scappare dal luogo in cui si nascondeva, inscenando una sparatoria che avrebbe dovuto metterlo in allarme. Serviva alla trattativa.

È l'ultimo anello che la Procura di Palermo ha aggiunto alla catena del presunto accordo tra i vertici della mafia e alcuni rappresentanti delle istituzioni, approdato davanti al giudice che deve decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per dodici imputati. Un intero faldone di vecchi atti processuali e inchieste rispolverati dagli archivi giudiziari di Messina, Reggio Calabria e Barcellona Pozzo di Gotto sono stati messi a disposizione del giudice, con l'intento di dimostrare che la latitanza di Santapaola fu allungata di alcuni mesi, proprio mentre si cercavano contatti con lui per convincerlo a interrompere gli attentati.

Poi la polizia arrivò a prenderlo, spezzando una trama che, sempre secondo l'accusa, gli artefici della trattativa provarono a perseguire anche con il boss in prigione. Attraverso l'allora vicedirettore dei penitenziari Francesco Di Maggio (ex pm milanese morto nel '96, inserito fra i protagonisti del «patto»), stando a quel che solo vent'anni dopo racconta l'ultimo, controverso testimone dell'indagine: l'avvocato Rosario Cattafi, inquisito da Di Maggio negli anni Ottanta, arrestato l'estate scorsa dai magistrati di Messina che lo considerano il referente della cosca barcellonese e ora detenuto al «carcere duro».

Cattafi nega le accuse nei suoi confronti, ma racconta della presunta «missione» che proprio Di Maggio gli avrebbe assegnato per contattare Santapaola nello stesso periodo in cui il boss si nascondeva da quelle parti. E in seguito quando entrambi si trovavano in prigione.

Protagonisti della vicenda - spiegata dai carabinieri in tutt'altro modo - sono sempre gli ufficiali del Ros guidato dagli ex generali Subranni e Mori, oggi imputati insieme all'ex capitano De Donno, il quale nella primavera del '93 si trovava in provincia di Messina con l'allora capitano Ultimo, il carabiniere che arrestò Riina e che fu processato (e assolto, come Mori) per la mancata perquisizione del covo del boss corleonese.

Agli atti del procedimento sulla trattativa sono finite le intercettazioni ambientali che, nella lettura dei pubblici ministeri, dimostrano come gli investigatori d'eccellenza dell'Arma riuscirono a registrare la viva voce di Santapaola, il principale ricercato della Sicilia orientale. Parlava nell'ufficio del cugino di un capomafia locale, a pochi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto.

Gli interlocutori lo chiamavano «zio Filippo», ma dal tenore delle conversazioni - sostengono oggi gli inquirenti - era chiaro che si trattava di Santapaola. «So che hanno fatto un blitz a Milano per droga... - diceva -. E lì ci hanno messo Totò Riina, a me, Madonia, tutti lì, tutti catanesi, perciò alcuni sbirri pensano una cosa, altri ne pensano un'altra...». In un colloquio intercettato lo stesso giorno, uno degli interlocutori dice all'altro: «Se non svieni e non lo dici a nessuno, io ti dico chi era quella persona che c'era qua dentro poco fa. Era Nitto Santapaola...».

Nonostante questi indizi e le registrazioni avvenute nell'arco di diversi giorni nell'aprile 1993, non solo i carabinieri non organizzarono alcun blitz per provare a catturare il boss, ma furono protagonisti di una sparatoria in cui fu coinvolto un ignaro passante, scambiato per un altro ricercato. Episodio che all'epoca fu giustificato con un disguido, mentre adesso nella ricostruzione dell'accusa viene considerato un messaggio lanciato a Santapaola per proteggerne la clandestinità.

A protezione della trattativa. Secondo un copione che si sarebbe ripetuto due anni più tardi con Bernardo Provenzano. All'udienza di ieri davanti al giudice, il pubblico ministero Nino Di Matteo ha esplicitato l'accusa del trattamento di favore riservato al padrino corleonese nell'ottobre del '95 (per quella mancata cattura è in corso un altro processo contro Mori e il colonnello Obinu): «Non si trattò di un episodio isolato, ma della volontà di adempiere a un patto, un accordo che è parte della trattativa scaturita dal ricatto mafioso. Provenzano venne lasciato in latitanza perché una parte delle istituzioni riteneva utile che prevalesse la fazione interna a Cosa nostra da lui guidata. Perciò conveniva che Provenzano rimanesse in libertà».

 

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