ITALIA SENZA FUTURO - SARTORI SPARA CONTRO LA GLOBALIZZAZIONE CHE HA “ELIMINATO” IL LAVORO DAL MONDO OCCIDENTALE A FAVORE DI PAESI DOVE IL COSTO DELLA MANODOPERA E’ NIENTE - “IN ITALIA L'INDUSTRIA HA PERSO, IN CINQUE ANNI, CIRCA 675 MILA POSTI DI LAVORO E LA PRODUZIONE SI È RIDOTTA DEL 20,5%” - IL PESO INSOSTENIBILE DEL DEBITO PUBBLICO E IL DUBBIO PIU’ ATROCE: MAGGIORI RISORSE PER LE OPERE PUBBLICHE RISOLVEREBBERO DAVVERO IL PROBLEMA?...

Giovanni Sartori per il "Corriere della Sera"

Si dice che mancano i soldi. Ma prima di tutto manca il lavoro. Quale è il nesso?
Per tutto il Medioevo su su fino all'avvento della società industriale, a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, la ricchezza era soprattutto agricola, era prodotta dal lavoro dei contadini. Poi, con la società industriale, la ricchezza fu sempre più prodotta dalla macchina, e quindi dagli industriali e dagli addetti alle macchine, dagli operai. E le città si ingrandirono sempre più perché alimentate (in ricchezza) dal lavoro artigiano nelle botteghe e dal commercio, specialmente nelle città marinare.

Saltando i secoli, negli anni Sessanta, che furono anni di grande euforia, i sociologi diffusero l'idea che alla società industriale stava subentrando la «società dei servizi». E la società dei servizi era, appunto, una società post industriale, non più di macchine e di fabbriche ma di uffici.

La differenza più importante tra le due (nelle rispettive conseguenze) è che i conti della società industriale erano facili: sapevi sempre se e quanto guadagnavi o perdevi. Invece i conti della società dei servizi, e più esattamente la produttività dei servizi, è difficile da misurare. Anche per questo i servizi si sono man mano gonfiati molto più del necessario, diventando un rimedio per assorbire la disoccupazione, e per ciò stesso una entità parassitaria. Intanto le città si ingrandivano, le campagne si spopolavano, e anche gli addetti alla produzione industriale diminuivano.

Poteva durare? Forse a popolazione stabile sì.
Ma nel frattempo è esploso il vangelo della globalizzazione. Tutto il mondo economico diventa un mondo senza frontiere. Torna in auge la formula della scuola di Manchester: «Lasciar fare, lasciar passare». Per l'economia finanziaria è già così. Anche a non volere, le transazioni finanziarie non possono non essere globali. Ma per l'economia produttiva che produce beni e merci, e quindi l'economia che davvero fabbrica crescita e ricchezza, non è e non può essere così.

Oggi gli economisti si sono in buona maggioranza buttati sull'economia finanziaria, quella che arricchisce gli speculatori, Wall Street, le banche e, di riflesso, gli economisti che ne sono consiglieri. Semplifico così: l'economia finanziaria fa fare (e anche perdere) soldi, ma di suo produce soltanto carta, fino ad approdare, oggi, alla carta-spazzatura dei cosiddetti derivati.

Torno alla globalizzazione, che sin dal 1993 ritenni un grave errore per questa ragione: che a parità di tecnologia (già allora il Giappone, ma poi man mano Cina, India e altri Paesi ancora) l'Occidente ad alto costo di lavoro era destinato a restare senza lavoro: e quindi che le cosiddette società industriali avanzate sarebbero diventate società senza industrie. La profezia era lapalissiana, e difatti si è già avverata in gran parte per i piccoli produttori (che però sono moltissimi).

I «grandi» (troppo grandi per poter fallire) si sono salvati inventando l'azienda glocal (una parola recente inventata ad hoc), in parte globale e in parte locale, che spezzetta la sua produzione magari con profitto, ma anche per salvare dal tracollo i Paesi industriali «anziani». In sintesi: la globalizzazione dell'economia industriale ci disoccupa, disloca il lavoro dove costa cinque-dieci volte meno. Possiamo trovare, già lo dicevo, importanti eccezioni a questa regola. Ma le statistiche parlano chiaro. In Italia l'industria ha perso, in cinque anni, circa 675 mila posti di lavoro e la produzione si è ridotta del 20,5 per cento (dati Cisl).

Ma il governo Monti - così come tutti i governi della zona euro che si sono indebitati oltre il lecito e il credibile - non affronta questo problema. Oggi come oggi non potrebbe nemmeno se lo volesse. È che noi abbiamo accumulato un debito pubblico salito al 123 per cento del Pil, del prodotto interno lordo, e cioè 1966 miliardi di euro.

Il che significa che il grosso delle entrate fiscali dello Stato è ipotecato in partenza: deve servire a pagare gli interessi su quel debito. Interessi che se salissero oltre il livello al quale sono, manderebbero lo Stato in bancarotta. Per di più lo Stato deve pagare il personale (eccessivo, ma c'è) che lo serve. E raschia ogni giorno il fondo del barile pagando i suoi stessi fornitori, a volte, addirittura con un anno di ritardo. Infine abbiamo la più alta pressione fiscale ma anche la più alta evasione fiscale (Grecia esclusa) dei Paesi euro.

Ma siamo ottimisti. Ammettiamo che il governo Monti riesca finalmente a decapitare gli sprechi e le ruberie del passato. Così si troverebbe ad avere soldi disponibili, che però (data l'alta disoccupazione, specialmente giovanile) dovrebbe investire in opere pubbliche (anch'esse, sia chiaro, necessarissime). Anche così, allora, i soldi da investire per produrre ricchezza e crescita continuerebbero a mancare. Oppure no? Qualche economista mi potrebbe aiutare a capire meglio?

 

GIOVANNI SARTORI MARIO MONTI italia crack ILMONDO

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