raffaele la capria

ADDIO “DUDÙ” – È MORTO A 99 ANNI, A ROMA, RAFFAELE LA CAPRIA: SCRITTORE, SCENEGGIATORE, SAGGISTA, VINSE IL PREMIO STREGA NEL 1961 CON “FERITO A MORTE” E IL LEONE D’ORO A VENEZIA PER LA SCENEGGIATURA DI “LE MANI SULLA CITTÀ” DUE ANNI DOPO – LO STRUGGENTE ADDIO ALLA MOGLIE ILARIA OCCHINI NEL 2019: "SIAMO STATI INNAMORATI FINO ALL'ULTIMO COME DUE RAGAZZI ALLE PRIME ARMI" – IL RAPPORTO CON NAPOLI: “MI SENTO COME QUEI PITTORI CHE PRIMA BUTTANO GIÙ I COLORI, E POI FANNO DUE PASSI INDIETRO PER VEDERE CHE COSA HANNO DIPINTO. VOGLIO DIRE CHE, A DISTANZA, NAPOLI LA RIESCO A CAPIRE MEGLIO. MA QUANDO CI RICAPITO DENTRO…”

 

1 - “IO E ILARIA SIAMO STATI INNAMORATI FINO ALL'ULTIMO COME DUE RAGAZZI ALLE PRIME ARMI” – LO STRUGGENTE ADDIO ALLA OCCHINI DI “DUDU’” LA CAPRIA DOPO 60 ANNI INSIEME: “È UNA PERDITA INCALCOLABILE, ERA NON SOLO UNA DONNA BELLISSIMA, UNA MOGLIE FASCINOSA, MA ANCHE UNA PRESENZA INTELLETTUALE ESSENZIALE PER ME. ED ERA AMOROSA CON ME”

https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/ldquo-io-ilaria-siamo-stati-innamorati-fino-all-39-ultimo-come-due-209480.htm

 

2 - MORTO RAFFAELE LA CAPRIA, LO SCRITTORE CHE AVEVA NAPOLI NELL’ANIMA

Antonio Carioti per www.corriere.it

ilaria occhini raffaele la capria

 

Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato.

 

raffaele la capria

A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Un denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986).

 

Nato il 3 ottobre 1922, La Capria era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi «in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso».

 

6 luglio 1961 - Ilaria Occhini con Raffaele La Capria vincitore del Premio Strega al Ninfeo di Valle Giulia

Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e i suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato.

 

Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un «mortorio» da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte.

raffaele la capria firma il libro a marisa laurito

 

Nella sua opera più importante, uscita nove anni dopo l’esordio, La Capria sperimenta una narrazione su piani multipli, che sovverte la successione temporale degli eventi, nel caleidoscopio dei ricordi che attraversano il dormiveglia del giovane Massimo De Luca (personaggio in cui l’autore raffigura sé stesso) la mattina del giorno che lo vedrà partire da Napoli per trasferirsi a Roma. Non era un romanzo facile, anche se il pubblico lo aveva gradito ed era stato tradotto all’estero.

 

Scorre nelle pagine di Ferito a morte il fascino della natura «disabitata dall’uomo», cioè il fondo marino dove il protagonista pratica la pesca subacquea, ma anche il dolore sordo e lancinante della delusione amorosa, l’Occasione Mancata di Massimo con Carla Boursier. E poi la spensieratezza irresponsabile di un gruppo di ragazzi e la fatalistica sonnolenza di una certa borghesia partenopea, dipinta senza sconti. Su tutto dominano, come scrisse il critico Geno Pampaloni «la straziante dolcezza di ciò che è irrecuperabile» e «il perdere di senso della vita come un velivolo che perde inesorabilmente quota».

 

LA CAPRIA

Erano passati molti anni prima che La Capria scrivesse un altro romanzo, Amore e psiche (Bompiani, 1973), che lui stesso giudicò poi un esperimento fallito per «eccesso di intellettualismo». L’intento era usare le tecniche della psicoanalisi per evocare indirettamente dal punto di vista del protagonista una vicenda che quel personaggio stesso rimuove perché troppo dolorosa.

 

Da allora non erano più usciti romanzi firmati da La Capria, ma molti libri d’altro genere, spesso ibridi: i testi autobiografici di False partenze (Bompiani, 1974) e La neve del Vesuvio (Mondadori, 1988), i brevissimi racconti di Fiori giapponesi (Bompiani, 1979), gli elogi della misura contenuti dei saggi La mosca nella bottiglia (Rizzoli, 1996) e Lo stile dell’anatra (Mondadori, 2001). Quasi tutti, come ha scritto Silvio Perrella, si possono considerare nati «da una costola di Ferito a morte».

 

LA CAPRIA

Sarebbe però un grave errore considerare La Capria un autore ripiegato sulla terra d’origine. Sin da giovane aveva dato alla sua ricerca letteraria un respiro internazionale. Appassionato ammiratore di George Orwell, durante la guerra aveva stretto un’amicizia affettuosa con l’americano Bill Weaver, futuro traduttore in inglese di molti scrittori italiani, e ad Harvard negli anni Cinquanta aveva conosciuto Henry Kissinger.

 

Sposato prima con Fiore Pucci, poi con l’attrice Ilaria Occhini, La Capria aveva avuto dalla prima moglie la figlia Roberta e dalla seconda Alexandra. Era stato un animatore costante della vita culturale, sulle pagine del «Corriere» e non solo. Nel 2001 si era aggiudicato il premio Campiello alla carriera e non aveva mai smesso di intervenire, finché le forze lo avevano sorretto. Non gli piaceva la televisione, detestava i talk show urlati, ma ad ottant’anni aveva cominciato a usare il computer, nel quale aveva trovato «un alleato perfetto». Restava sempre curioso del mondo e della vita: «Dobbiamo accostarci con meraviglia alle cose. Come se fosse sempre la prima volta».

LA CAPRIA

 

3 - BIOGRAFIA DI RAFFAELE LA CAPRIA

Da www.cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

 

LA CAPRIA Raffaele Napoli 8 ottobre 1922. Scrittore. Vincitore del premio Strega 1961 con Ferito a morte, autore di romanzi e saggi: Un giorno d’impazienza (1952), Amore e psiche (1973), Fiori giapponesi (1979). Fra le sue raccolte di saggi, perlopiù dedicati alla cultura partenopea cui è profondamente legato, Variazioni sopra una nota sola (1977), L’armonia perduta (1986), Letteratura e salti mortali (1990), Il sentimento della letteratura (1997)

 

LA CAPRIA ROSI GHIRELLI

• « proprio uno scrittore magico. ”Il premio Campiello alla carriera, che mi hanno assegnato lo scorso settembre vorrei proiettarlo verso il futuro. Mi lascio alle spalle quindici libri, da Neve del Vesuvio a Lo stile dell’anatra, e ricomincio con un nuovo libro sulla mia Napoli, riprendo il discorso di Ferito a morte, degli anni Sessanta […] Mi sento come quei pittori che prima buttano giù i colori, e poi fanno due passi indietro per vedere che cosa hanno dipinto. Voglio dire che, a distanza, Napoli la riesco a capire meglio. Ma quando ci ricapito dentro, mi coinvolge ancora troppo: col suo dialetto, i suoi mille mari del golfo

 

raffaele la capria

[…] Credo che ci sia un invisibile sipario aperto su Napoli: si rappresenta in continuazione uno spettacolo dialettale che anticipa i mali della nazione. Si assiste chiaramente a fenomeni di criminalità e disoccupazione. Senza le ipocrisie di altre città che stanno più a nord”. Da ragazzo, al liceo Umberto I, i suoi compagni erano Napolitano, Antonio Ghirelli, Patroni Griffi. ”Quando litigavamo, o giocavamo a calcio, dialetto stretto. Era la nostra identità ancestrale. Adesso la televisione ha creato un italiano-base grigio e banale.

 

LA CAPRIA

Oggi un napoletano che va al nord non è più un emigrato: ma un viaggiatore costretto a nascondere il dialetto nello spirito e a parlare quella strana lingua televisiva […] Il numero uno rimane Roberto Murolo: lui fa sentire le melodie, ma ad una ad una anche tutte le parole col ritmo giusto del verso. Insomma è la poesia che genera la canzone napoletana […] Il dialetto mi riscalda come una specie di copertura materna. Quando scendo a Napoli, lo vado a cercare nelle zone più popolari, tra i venditori delle bancarelle di San Gregorio Armeno. Là si vendono i presepi tutto l’anno, riescono a trasmetterti il brivido di Natale anche a primavera […]

 

Papà era un commerciante all’ingrosso di grani, fu anche presidente del consorzio agrario, e quindi era costretto a parlare italiano. Mentre mia madre alternava l’italiano al francese. Io e mio fratello, che oggi vive a Sanremo con la moglie Isa Barzizza, rubavamo il dialetto e i suoi misteri a Rosaria, la nostra cameriera.

 

Lei era una cassaforte di napoletanità. Credeva agli spiriti, ai fantasmi, e cucinava ricette che purtroppo si è portata nella bara. Giocava al lotto la mattina prestissimo, perché non voleva dimenticare i sogni premonitori della notte: e vinceva pure. Mio fratello la chiamava ”l’usuraia’, perché ogni mattina, si faceva prestare da lei delle piccole somme che a fine anno diventavano un capitale” […] 1961. Con Ferito a morte vince il premio Strega. Ma lo ritira distrattamente. ”Da buon napoletano, per me viene prima l’amore della gloria e del potere. Durante la cerimonia dello Strega, ho conosciuto Ilaria, la donna che sarebbe diventata mia moglie: mi apparve subito così bella e sublime, che il primo istinto fu di cercare una macchina fotografica per fermare il suo sguardo”.

 

Ilaria, è la Occhini, attrice toscana, nipote del grande Giovanni Papini. Non c’è stato, tra voi, uno scontro di dialetti? ”Dopo quarant’anni, lei mi chiama ancora Raffaele, mentre per gli amici sono Dudù. Lei è rimasta cattolica papiniana e io laico crociano. Da buona toscana, ama i ritmi della campagna. Non si spaventa pensando che gli alberi restano e tu muori. Napoli è un’altra cosa. Il mare mi dà il senso di non finire mai, di trasformazione: mi piace quello in burrasca, quello calmo a specchio, o grigio come il piombo fuso. E poi l’onda reinventa in superficie, in continuazione, una nuova luce. Ma dallo scontro dei dialetti, comunque, è nata Roberta: il nostro ”capolavoro equilibrato", che adora la Toscana, ma appena può fa un salto a Napoli […]

 

la capria 2

Sono scettico, anche se rispetto la religiosità. Vede, io ho scritto con Franco Rosi la sceneggiatura di Mani sulla città, e anche di C’era una volta, con la Loren: film in cui ho studiato la mentalità scaramantica di Napoli. Nei vicoli più tormentati, il dialetto è come una membrana sottilissima tra superstizione e religiosità, sacro e profano. Parlarlo ti eccita […] Smitizziamo le presunzioni umane. Come Totò, che con i suoi ”parli come badi’, o ”chicche e sia’, sfotteva i perfezionisti dell’italiano. Ma sì, noi napoletani siamo per la democrazia spirituale. Napoli è come un’anfora antica, tirata su dal mare, tutta incrostata di conchiglie, apparentemente senza forma: ma se l’occhio è esperto, riesce a coglierne la bellezza originale. Perfetta, sinuosa, intrigante, modellata da un artista irripetibile, sicuramente napoletano” […] La motivazione del ”Campiello alla carriera’ con cui hanno premiato questo scrittore-farfalla che sfida, a ottant’anni, la lampada delle passioni: ”A Raffaele La Capria, che nelle forme della scrittura ha ridato al mondo l’armonia perduta”» (Paolo Mosca, ”Il Messaggero” 25/2/2002)

 

• «’Guaglio’, tu hai letto troppi libri”, ripeteva il nonno, preoccupato che l’anima cortese del ragazzo non resistesse agli urti della vita. Invece quella gentilezza lo ha accompagnato fin sulla soglia degli ottant’anni, rivelandosi un efficace antidoto contro i soprassalti del destino e la volgarità del quotidiano. E i tanti (mai troppi) libri masticati e digeriti nel corso dell’esistenza, hanno costruito un’impalcatura culturale del tutto anomala nel panorama letterario italiano. […] ”A casa mia, non c’era nemmeno un libro - racconta -. La prima biblioteca l’ho formata io, con i libri della Utet. Pensa che iniziai a leggere Edgar Allan Poe perché mi incuriosiva il nome”.

Ilaria Occhini Raffaele La Capria

 

Navigando lungo questa rotta, lo scrittore sostiene d’aver capito che ”uno dei maggiori difetti degli italiani, non solo degli uomini comuni, ma anche degli intellettuali più generosi e raffinati, è quello di pensare in grande rimanendo, nonostante la grandezza dei pensieri, piccoli”, perché ”in nome di un’ideologia si riusciva con poche frasi a mettere a posto mezzo mondo, tralasciando la relatività e la complessità di tutte le cose che accadono”. Alla logica ideologica , che è la ”pratica dell’astrazione concettuale”, contrappone quindi quella che Goffredo Parise (l’autore italiano forse da lui più amato) chiamava la logica elementare .

 

LA CAPRIA

”Cerco di non far sentire al lettore l’autorità intellettuale incombente di chi sta riferendo propri pensieri. Anche per questo, intervallo le riflessioni con racconti sullo stesso tema, cercando di rendere in qualche modo il senso di una verità. Oggi mi sembra siano tutti occupati a scrivere romanzi, dove in definitiva cambia un poco soltanto la storia... In questi romanzi ci sono pochi pensieri. Allora, da queste considerazioni e dalla mia voglia invece di dirli questi pensieri, di dirli nella accalorata maniera in cui li si può dire in un romanzo, è nato il mio stile saggistico-narrativo”.

 

E dire che spesso Duddù (come lo chiamano gli amici) viene ricordato quasi fosse l’autore di un solo romanzo, quel Ferito a morte che nel ”61 gli regalò un’improvvisa fama insieme alla conquista (per un solo voto in più) del Premio Strega.

 

RAFFAELE LA CAPRIA

”La consapevolezza della stupidità delle cose che mi circondavano, rimanendo sempre lucida - spiega rievocando la stesura del suo capolavoro - mi ha suggerito di complicare e rendere sempre più problematico e raffinato, quasi per una compensazione, il modo di descriverle: l’organizzazione dei piani del racconto, le strutture della rappresentazione. Ferito a morte fu il raggiungimento di questo strano equilibrio: alla povertà del materiale, delle situazioni umane di cui parlavo (l’infantile dissipazione di una giornata trascorsa al Circolo Nautico) si contrapponeva la ricchezza della mia scrittura, che non si distaccava da quel materiale ”povero’, ma voleva rivelarne nuovi aspetti attraverso un accanito lavoro formale”. […]

 

raffaele la capria con andrea

”Ho sempre immaginato un altro me stesso che sosteneva idee completamente opposte alle mie - sottolinea -. Mi piaceva addirittura figurarmelo, questo altro me stesso, perché tutte le domande che mi poneva mentre scrivevo richiedevano, provenendo da qualche parte di me, una pronta risposta”. Ma l’altro , l’opposto, Duddù se l’è ritrovato a fianco anche in famiglia: difficile, infatti, immaginare qualcuno più diverso da lui del fratello Pelos, il Ninì di Ferito a morte. ”Era lieve e svagato, pieno di verve, inventava continuamente la sua vita e il suo linguaggio”, confessa lo scrittore, mettendo a fuoco un personaggio che rappresentava ”la napoletanità più civile”, quell’impasto di leggerezza e ironia che segnò una generazione nel dopoguerra e diede lo spunto a Vittorio Caprioli per Leoni al sole, splendido (quanto dimenticato) film. Chi era Pelos? Si potrebbero snocciolare decine di aneddoti e di storie su di lui. Ma ne basta una, l’ultima. Affidata alla voce del fratello: ”Proprio alla fine, gli restava ormai meno di un’ora di vita, vedendomi stravolto perché lui non ce la faceva a respirare e io non sapevo come aiutarlo, mi dice, sempre con quel suo sorriso strafottente: ”Duddù, ti serve qualcosa?’”» (Enzo d’Errico, ”Corriere della Sera” 16/6/2002).

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