NANNI DELBECCHI: “MIA MOGLIE SE N'È ANDATA UN ANNO FA. NON C'È FINE AL DOLORE DI CHI RESTA E UNA DOMANDA RESTA SENZA RISPOSTA: IL SUICIDIO È SEMPRE UN GESTO VOLONTARIO? ALESSANDRA SOFFRIVA DI CRISI DEPRESSIVE FIN DA RAGAZZA MA “QUESTA VOLTA E’ DIVERSO” AVEVA DETTO. LA TERAPEUTA DI FAMIGLIA NON ERA BASTATA, SU SUGGERIMENTO DI UN NUOVO SPECIALISTA PER LA PRIMA VOLTA AVEVA ASSUNTO PSICOFARMACI MA LA SITUAZIONE NON ERA MIGLIORATA”

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Nanni Delbecchi per il Fatto Quotidiano

 

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La mia vita di survivor comincia con uno squillo del telefono, alle 11 del mattino del 3 giugno 2018. Due ore prima, in quella immobile, afosa domenica milanese addossata al 2 giugno, avevo ricevuto un messaggio da mia moglie Alessandra, ricoverata nel reparto Psichiatria 1-Disturbi dell' umore dell' ospedale San Raffaele Turro.

 

"Un' altra notte difficile, non venire prima delle 12". Ma non è lei a telefonarmi. "Parlo con il marito della signora Alessandra Appiano?" "Certo, chi parla?" "Polizia".

 

L' agente mi dice di recarmi con urgenza presso un albergo di cui mi fornisce l' indirizzo. Gli dico che deve esserci un errore perché mia moglie è ricoverata in ospedale da 17 giorni, ma lui insiste. "Vada subito in via Stamira d' Ancona". Lo scuorante stradone di periferia è lo stesso dell' ospedale, sperando in un errore mi precipito al San Raffaele e chiedo notizie di Alessandra. Gli infermieri cadono dalle nuvole: "Di cosa si preoccupa? Sua moglie è uscita a prendere un caffè al bar dell' ospedale, sarà tornata in stanza". Ma in stanza non c' è. Questa volta chiamo io la polizia, metto a fuoco che il 27 di via Stamira d' Ancona corrisponde all' Hotel Plaza Ramada, 400 metri più in là.

 

Un' altra volante è ferma all' ingresso, mi aspetta per comunicarmi che Alessandra è stata vista cadere dal solarium dell' ottavo piano.

 

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Il mio primo gesto di survivor è tornare all' ospedale dove mia moglie è ricoverata per comunicare che mia moglie non c' è più. "Suicidio", "gesto volontario": nel giro di poche ore queste parole cominciano a rimbalzare in Rete, ma io dubito che si possa parlare di gesto volontario in senso stretto. Non tutti i suicidi lo sono. Il suicidio è il gesto più lucido che un essere umano possa compiere, dice Albert Camus, ed è difficile dargli torto.

 

Ho sempre rispettato chi mette fine alla propria vita rivendicando questa scelta estrema. Ma Alessandra negli ultimi mesi non era più lei, la violenta crisi maniaco-depressiva l' aveva resa irriconoscibile prima di tutti a se stessa. Quale lucidità può avere, di quale volontà può disporre una donna che fugge da un reparto psichiatrico subito dopo avere assunto la terapia, senza alcuna sorveglianza da parte dell' ospedale in cui è ricoverata, e si getta nel vuoto un quarto d' ora dopo aver scritto al marito "vieni alle 12"?

 

Alessandra soffriva di crisi depressive fin da ragazza, ma "questa volta è diverso" aveva detto. La terapeuta di famiglia non era bastata, su suggerimento di un nuovo specialista per la prima volta aveva assunto psicofarmaci, ma la situazione non era migliorata. Siamo entrati in un vortice di prescrizioni farmacologiche, dosaggi, specchietti (quattro, cinque, sei pillole al giorno), consulti telefonici, nuovi psichiatri. Tutto inutile.

 

nanni delbecchi nanni delbecchi

"Ho l' inferno dentro", "Non riesco a mettere assieme i pezzi", "Non tornerò più quella di prima". Quale extrema ratio, concordiamo il ricovero presso il San Raffaele Turro, considerata la miglior struttura psichiatrica di Milano, e non solo. "Vedrà, la faremo tornare come nuova", dice la dottoressa Raffaella Zanardi ad Alessandra. Invece il piano resta inclinato. Ogni giorno passo a trovarla, passeggiamo per le villette e i giardini dell' ospedale nel sole sfocato di quel maggio triste, ogni giorno mia moglie mi dice di sentirsi sempre peggio.

 

Il 30 maggio Alessandra compie 59 anni; rappresento alla dottoressa Zanardi la sua volontà di essere dimessa, non regge più il ricovero. La psichiatra dissente; a suo avviso è necessaria almeno un' altra settimana di degenza, nella depressione maggiore i farmaci tardano a fare effetto, per questo è stato deciso di aumentare e modificare la terapia. Anch' io mi impegno per convincere mia moglie. "Ale, tieni duro, siamo in buone mani". Alle 11 del mattino di quattro giorni dopo squilla il telefono. "Polizia".

 

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Nel mio primo anno di survivor, "l' anno del pensiero magico" sento l' imperativo di calarmi al fondo di questa fine assurda, di un gesto non separabile dallo stato estremo in cui si trovava Alessandra, un gesto che contraddice il suo attaccamento alla vita, la sua disciplina, il suo culto della salute e del proprio corpo.

 

Come parte offesa nel procedimento penale contro ignoti, nomino un avvocato e chiedo di essere ascoltato. Il maresciallo dei carabinieri è gentile, ma mi fa intendere che il mio punto di vista rischia di essere poco oggettivo (sono pur sempre un survivor). Poiché la Procura non lo nomina, cerco a mie spese un consulente tecnico che possa valutare l' eventuale presenza di profili di responsabilità professionale sulla base della cartella clinica, del diario infermieristico e della relazione tossicologica. Nessuno, a Milano, accetta l' incarico; qualcuno si mostra disponibile in un primo momento, ma poi, quando viene a sapere qual è la struttura coinvolta, ci ripensa, e rinuncia.

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Vado alla clinica San Rossore di Pisa per incontrare il professor Giovanni Battista Cassano, che ha dedicato tutta la vita alla cura della depressione.

 

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Nell' impossibilità di agire direttamente per limiti dell' età, Cassano mi segnala lo psichiatra forense Stefano Ferracuti, professore di Psicologia Clinica presso l' Università Sapienza. Il professor Ferracuti accetta l' incarico, pur senza nascondere il suo scetticismo. "Se non siamo in presenza di Tso, solo in casi particolari può scattare l' accusa di omicidio colposo. La libertà del paziente viene prima di tutto". "Ma Alessandra è fuggita dall' ospedale senza dare le dimissioni. È stata trovata con il braccialetto dei degenti e la cannula per la flebo con cui veniva sedata". "D' accordo, scriverò la relazione. Ma guardi che le daranno del fascista".

ALESSANDRA APPIANO ALESSANDRA APPIANO

 

È l' ultima cosa che immaginavo di sentirmi dire, ma la incasso senza batter ciglio. "Siamo tutti per poco ospiti della vita, vivere è un' abitudine" ha scritto Anna Achmatova; ma sopravvivere è una scoperta continua.

 

Il 10 aprile 2018 viene notificata la richiesta di archiviazione del procedimento penale contro ignoti. Si ritiene infondata la notizia di reato per omicidio colposo e si recepisce integralmente la linea difensiva dell' ospedale.

 

ALESSANDRA APPIANO CON UN GRUPPO DI VOLONTARIE ALESSANDRA APPIANO CON UN GRUPPO DI VOLONTARIE

Questo sebbene nella motivazione stessa si legga: "Appare evidente la ratio secondo la quale i pazienti sono in ogni caso liberi di muoversi all' interno della struttura, così come sono liberi di abbandonarla firmando una lettera di dimissioni secondo la normativa vigente".

 

Con l' avvocato decidiamo di presentare opposizione, tornando a chiedere chiarezza sull' applicazione dei protocolli anti suicidio in uso presso il San Raffaele, e ribadendo che quella mattina Alessandra poté raggiungere indisturbata un albergo distante 400 metri dall' ospedale. "Il fatto che la signora fosse in ricovero volontario non implica che potesse allontanarsi dalla struttura ospitante senza alcuna misura di protezione. [] La signora, infatti, non ha firmato alcuna lettera di dimissioni il giorno che si è suicidata, né il personale aveva cognizione che si fosse allontanata. [...] La stessa Corte di Cassazione ha stabilito che: 'Il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto'".

 

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C' è poi il tema della comunicazione tra i sanitari del reparto. "Ansia, demoralizzazione e a tratti disforia, sensazione di inadeguatezza, visione pessimistica del futuro, iporessia, deficit di concentrazione, insonnia con mantenimento del funzionamento globale pur con maggiori difficoltà a svolgere le attività", si legge nella cartella clinica di Alessandra: tutte dimensioni psicologiche associate in psichiatria al rischio suicidario. Il "lieve miglioramento" degli ultimi giorni, cui si fa riferimento sempre in cartella, stride sia con la mia diretta esperienza, sia con alcuni, gravi episodi registrati nel diario infermieristico e non valutati.

 

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Chiedo di rientrare in possesso del cellulare di Alessandra che nella fuga aveva portato con sé, e scopro che non è mai stato acquisito dalla procura. Sequestrato e custodito per alcuni mesi in un Commissariato, è stato quindi consegnato all' Ufficio oggetti rinvenuti del Comune, dove tramite lo studio legale ho potuto recuperarlo. Faccio trascrivere a mie spese i messaggi scambiati nei giorni del ricovero, deposito le trascrizioni presso il gip incaricato di pronunciarsi sull' opposizione alla richiesta di archiviazione.

 

Da questi messaggi si conferma ciò che già sapevo: che abbiamo deciso per il ricovero quando la malattia è diventata ingestibile a domicilio, e potenzialmente autolesiva; che il ricovero si è rivelato una via crucis segnata da un ineluttabile peggioramento dell' umore ("sono andata all' inferno", "da panico a panico mi sembra di essere finita in una spirale di follia", "la mia vita mi pare completamente rovinata e qui sto malissimo", "sto malissimo, voglio andare via da qui sono in trappola"); che è evidente la mancata risposta alla terapia farmacologica; che negli ultimi giorni emerge un crollo ulteriore, insopportabile. Come scrive W.G. Sebald: "Il dolore fisico ha un limite, perché oltre una certa soglia si sviene; il dolore mentale no.

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" Un anno da survivor, stato dell' anima fuori scala dove il dolore si allea all' incredulità, scorre incredibilmente veloce (ogni giorno devi ricordare a te stesso cosa è successo) e incredibilmente lento (ti confronti con l' eternità, domani non sarà un altro giorno). Un anno e quattro mesi fa sentivo che Alessandra era morta di malattia e non per suicidio, mi rifiutavo di considerare quel raptus un gesto volontario. Un anno e quattro mesi dopo, so che Alessandra è morta di malattia. Non sta a me decidere se esistano responsabilità, e quali, ma so che Alessandra non voleva morire, e che l' estremo tentativo di ritornare alla vita si è rivelato fatale.

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Il ricovero di Alessandra è capitato nel cuore della stagione delle ciliegie, e la ciliegia è sempre stato il mio frutto preferito. Un giorno ne ho comprato un chilo da un fruttivendolo vicino al San Raffaele, mi erano sembrate bellissime, e le ho portate ad Alessandra. Non ne era ghiotta come me, ma anche a lei piacevano. Le abbiamo mangiate seduti su una panchina dei giardini dell' ospedale, mettendo da parte i noccioli mentre io provavo a rincuorarla. Poi, prima di salutarci, abbiamo riposto le ciliegie avanzate nell' armadietto della sua stanza. Dal 3 giugno 2018 le ciliegie non mi piacciono più come prima. È strano, eppure è così. Le assaggio, le riassaggio, mi piacciono ancora, ma non ne sono più ghiotto.

 

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