Marco Giusti per Dagospia
Guardate la bellissima serie di Warner Bros e Netflix, “Sweet Tooth”, ideata da Jim Mickle e tratta da una graphic novel di una decina d’anni fa di Jeff Lemire, per capire come una serie possa riscrivere un percorso di tolleranza della diversità e una nuova rilettura del virus in termine favolistici adatti a ragazzini di ogni paese.
“Sweet Tooth” con il suo ragazzino-cervo, l’adorabile Christian Convery, l’orco buono di Nonso Anozle, un west ricostruito nei meravigliosi paesaggi della Nuova Zelanda, è tutto quello che avrebbe voluto essere “Anna” di Ammaniti e non lo è stato. Cioè una grande favola post-virus per tutti dove in un viaggio costruito dai ragazzini si ritrova l’umanità perduta. Molti passaggi sono incredibilmente identici, inoltre.
La differenza sostanziale, a parte i soldi, certo, la ricchezza fotografica, è che qui il racconto è chiaramente riscritto dopo l’arrivo del virus, e tutto è chiaramente letto come legato alla natura, è la natura, messa in pericolo dai disastri degli umani, che mostra negli ibridi animali la soluzione al virus. Ma la cosa che più mi affascina è che proprio questi ibridi, che avrebbero potuto essere trashissimi, il bambino-cervo, la bambina-maialina, diventano qui dolcissimi e veri protagonisti, come se stessimo vedendo un film Warner di Bugs Bunny, ovviamente citato nella serie.
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