filippo la mantia

MANIFESTO LA MANTIA – ''CHIAMATEMI OSTE, CHEF È UNA PAROLA SPUTTANATA, FARE IL CAMERIERE È CONSIDERATO DISDICEVOLE. SONO TUTTI FIGHETTI'' – EX FOTOREPORTER, KOUDELKA LO SEGNALÒ PER IL PULITZER, POI IL CARCERE E LA SVOLTA CULINARIA, MA NON PARLATEGLI DI SOFFRITTO – ''CRACCO E CANNAVACCIUOLO? DUE PROFESSIONISTI…''

Antonello Piroso per la Verità

 

FILIPPO LA MANTIA

Filippo La Mantia, nato a Palermo 57 anni fa, rinomato «oste e cuoco» -non chef, se lo chiamate così s' infastidisce, sbottando alla sicula: «Si propiu na camurrìa» - harleysta convinto (possiede una Harley Street Glide del 2011, è anche collaudatore per riviste specializzate di motociclismo), è papà da pochi mesi di un maschietto chiamato Andrea come il padre scomparso.

 

Ma La Mantia sa che saranno le donne a ereditare la terra, e infatti lui è al centro di un piccolo gineceo: ne fanno parte la compagna Chiara Maci, con cui ha messo al mondo Andrea, e poi Carolina, 11 anni, la prima figlia di Filippo, e Bianca, 4, figlia di Chiara, entrambe avute da precedenti relazioni.

 

È vero che il film di Simona Izzo Tutte le donne della mia vita è ispirato alle sue gesta da sciupafemmine?

 

«Diciamo che la seconda parte, perché la prima è sulla carriera del protagonista, interpretato da Luca Zingaretti, come chef stellato, quando lui è a Stromboli, è stata modellata sui miei tre valori: la Sicilia, la cucina, la famiglia. E le sue mani, quando impastano, in realtà sono le mie. Come mie sono le ricette, tipo il latte di mandorle con il gelsomino e le mandorle sbriciolate. Quanto allo sciupafemmine, sono anni che è andato in pensione.

Ristorante Filippo La Mantia Milano

 

Circondato da tutte queste donne, compresa mia madre Enza, mi sento beato e in pace con me stesso».

 

La sua allergia a essere chiamato chef da dove arriva?

«È una parola sputtanata. Sono tutti chef. Invece io sono cresciuto con il mito dello chef il quale era un professionista che aveva studiato, frequentato l'istituto alberghiero, andato a bottega da un altro chef a imparare i rudimenti e la tecnica del mestiere: insomma, un sommo sacerdote della cucina. Io ho rispetto per i miei amici e colleghi che lo sono per davvero, avendo fatto questo percorso.

 

Ma io, che sono un autodidatta, ho solo tanta passione e lavoro come vivo, cioè d' istinto, come posso pensare di arrivare a fregiarmi di tale appellativo? Sarebbe come dire che un geometra è un ingegnere».

 

mara venier filippo la mantia

Gli chef dilagano in tv. È peggio dell'invasione degli ultracorpi. A qualsiasi ora del giorno, puoi star certo che in tv c' è qualcuno ai fornelli.

«E la gente si chiede: ma questi quando stanno in cucina a sporcarsi le mani?».

 

 

Però un programma l'ha fatto pure lei, su La5, insieme al suo amico e collega Davide Oldani.

«Bella esperienza, ho voluto provare, solo che io preferisco la diretta e non riesco a stare in uno studio per 14 ore. In più mi allontanava dal mio regno, che è il locale, e dalla mia brigata, ovvero le persone che lavorano con me in cucina.

 

Ma bisogna anche dire che i ristoranti stellati costano tantissimo, e quindi capisco che i loro titolari vadano in video perché quello può rappresentare un volano per i loro bilanci».

stefania scarampi filippo la mantia

 

La tv indubbiamente aiuta: Carlo Cracco o Antonino Cannavaciuolo ormai sono veri e proprio guru.

 

«Stiamo parlando di due persone che hanno cominciato anni e anni fa: Cracco negli anni Ottanta era già ai fornelli da Gualtiero Marchesi, Cannavacciuolo a 19 anni aveva già conseguito l'attestato di cucina. Quello che hanno raggiunto se lo sono meritato. Diverso è il discorso su leggende e falsi miti che i programmi tv hanno generato.

 

Se io adesso entro in cucina e tiro una padella a uno dei miei ragazzi, quello mi denuncia e mi fa causa. Il problema è un altro: nessuno vuole più la sala. Il maître viene visto come uno che serve, e noi in Italia non ci vogliamo abbassare. Tutti fighetti. Non mi venite a parlare di disoccupazione: abbiamo 28.000 posti in sala vacanti, per stipendi che partono da 1.300 netti al mese, cui aggiungere le mance. Peccato che fare il cameriere sia ritenuto socialmente disdicevole».

 

Nella sua vita professionale precedente lei è stato un fotoreporter, negli anni bui delle guerre tra mafiosi e tra i mafiosi e lo Stato.

 

filippo la mantia marco mezzaroma cristina mezzaroma

«Un periodo tremendo. Sono cresciuto alla scuola di Letizia Battaglia, e la sera del 3 settembre 1982, a 21 anni, sono stato il primo ad arrivare a via Carini, a Palermo, dove i killer avevano sparato a Carlo Alberto Dalla Chiesa e a sua moglie Emanuela Setti Carraro. Ma io non sapevo che fossero loro.

 

Anzi, ho cominciato a scattare partendo dall'Alfetta, che era quella dell'uomo di scorta, pensando che l'obiettivo fosse sull' auto blu. Poi sono passato all'A112 del generale. Ma poi sono arrivati poliziotti e carabinieri che, a suon di sberle, mi volevano sequestrare il rullino. Ma li ho fregati: erano così impegnati a darmele, che non si sono accorti che l'ho sostituito con un altro, vergine. Così hanno distrutto il negativo sbagliato».

 

Per questo è stato in corsa per il premio Pulitzer?

«Non per gli scatti di via Carini. Per quello della testa mozzata e fatta ritrovare sul sedile di un'auto. La foto la vide il grande Josef Koudelka, che era a Palermo e mi segnalò per la candidatura. Le mie foto intanto erano finite su Time, Life, Stern».

 

Vuole ricordare come si è interrotta la sua carriera?

filippo la mantia francesco de gregori max tortora

«Fui portato di notte all'Ucciardone, accusato di essere complice nel barbaro omicidio del vicequestore Ninni Cassarà, che fu falciato mentre rientrava a casa da sicari della mafia che gli spararono dalle finestre del palazzo di fronte. Siccome io risultavo essere l'ultimo inquilino registrato di quell' appartamento che avevo lasciato mesi prima, mi hanno ingabbiato. Dopo sei mesi di galera, mi ha salvato Giovanni Falcone, che ordinò di rimettermi in libertà perché era evidente che io non c' entrassi nulla».

 

Mettiamola così: ex malo bonum. Se non ci fosse stato il carcere, lei non sarebbe diventato cuoco.

«Ho iniziato a cucinare per me e altri 11 detenuti per sognare di essere a casa e non in una cella: con il rito del cucinare, sentivo gli stessi odori e sapori che avevo respirato da bambino. La pasta al sugo di pomodoro e melanzane, il pesce spada.

Gli involtini di vitello, il pollo in tegame, le frittate. Unici ingredienti banditi: aglio, cipolla e soffritti in genere».

 

E perché?

lo chef la mantia

«Non mi piacciono, è una questione di gusto. Rivendico con orgoglio di essere stato il primo cuoco a bandire il soffritto dalle pietanze che preparo».

 

Dalla Sicilia a Roma, con tre locali diversi, poi da tre anni a Milano, nell' ex ristorante di Dolce e Gabbana. Perché tale transumanza?

«Perché volevo arrivare ad avere un locale che fosse interamente mio, e in una piazza, una metropoli che è protesa in Europa. A Roma sono diventato Filippo La Mantia, e da buon siciliano io non dimentico. Solo che quando si è affacciata questa possibilità, non ci ho pensato un attimo. Come le ho detto, sono un istintivo. E mi piacciono le nuove sfide».

 

Quali sono i piatti da cui la sua cucina non prescinde mai?

«La caponata di melanzane e il cous cous. Mi danno sempre grandi soddisfazioni. Ho provato a non mettere la caponata tra i piatti del menu, c' è stata la sollevazione dei clienti. Sette su 10 la ordinano in qualsiasi periodo dell'anno.

 

Saverio Ferragina e Filippo La Mantia

Le melanzane sono meravigliose, le puoi usare dall' antipasto al dolce, basta tagliarla a fette spesse, scottarle al forno e passarle nella cioccolata. Quanto al cous cous, l'ho scoperto quando in provincia di Trapani ho visto le anziane signore che "incocciavano" la semola. Mi raccontavano che le donne del Maghreb, quando lo preparano, pregano.

 

Questo aspetto, il rito, è quello che mi affascina. I miei ingredienti sono semplici: spezie, basilico, agrumi, capperi, mandorle e tutti quelli della tradizione siciliana, dei cibi di strada e della cultura mediterranea. La buona cucina non necessita di inutili estetismi, costruzioni architettoniche, food design, e altre "camurrie" del genere».

 

Lo dice lei, che ha studiato architettura all' università?

«E prima mi sono diplomato al liceo artistico. Ma odio l'architettura applicata al cibo, i piatti che sembrano sculture. Alla gente devi dare la percezione che quello che stanno gustando possono rifarlo facilmente a casa. Il mio approccio è facile, lo definisco sensoriale. Quello di uno che apre il frigo e si applica con quello che ha a disposizione».

 

Come è finito ad accompagnare con l'armonica le esibizioni di Edoardo Bennato?

Giovanni Malago Filippo La Mantia

«Lo vidi suonare alla fine degli anni Settanta nella facoltà di Giurisprudenza occupata. Rimasi fulminato: abbandonai l'assemblea e corsi a comprarne una. Da cui non mi sono più staccato, ne ho sempre una in tasca. Quando finalmente ho incontrato di nuovo Bennato nel 2009, grazie a una conoscenza comune, è diventato uno dei miei migliori amici».

 

I grillini non la amano. Del resto, come potrebbero? Ha detto - usando una tipica espressione sicula - che Luigi Di Maio le sta sulla punta della matita.

«Secondo lei, posso essermi espresso così? Ma pure se pensassi una cosa del genere, con il mestiere che faccio l'avrei detto? Guardi, io penso che un cuoco debba disquisire di ricette e ingredienti, non di politica. E non per paura o quieto vivere, ma perché sarebbe ora che ciascuno rientrasse nel perimetro delle proprie competenze, evitando di inventarsi tuttologo. Dopo di che, è vero che anni fa i grillini stilarono una lista di locali che non era consigliabile frequentare a Roma, tra cui il mio, identificandolo forse come meta della famigerata casta, vai a sapere».

 

filippo la mantia

Non si preoccupi: al ritmo con cui si stanno rimangiando le loro vecchie parole d' ordine, a breve lei sarà riabilitato. Per concludere, La Mantia: cosa vuol dire essere siciliani?

«Amare un luogo che chi non è siciliano vede come una regione con le sue diverse province. Per me invece è una sola terra, l'isola delle mie radici, il mio tesoro. Per questo mio figlio il mese prossimo sarà battezzato a Palermo».

 

Filippo La Mantia

 

La Mantia Filippo Craxi Testa e La Mantia Giovanni Malago Filippo La Mantia Craxi Testa e La Mantia FILIPPO LA MANTIA resize Filippo La Mantia FILIPPO LA MANTIA E DAVIDE OLDANI ANDREA CAMILLERI FIIPPO LA MANTIA FILIPPO LA MANTIA E SERGIO DI SABATO (DIR. MARKETING KIMBO)FILIPPO LA MANTIA MEHRIBAN ALIYEVA CAROLE BOUQUET E FILIPPO LA MANTIA GIANCARLO GALAN FILIPPO LA MANTIA E DANIELA CAROSI FILIPPO LA MANTIA E STEFANIA SCARAMPI VALERIA LICASTRO FILIPPO LA MANTIA ANTONIO MARTUSCELLO FILIPPO LA MANTIA E STEFANIA ENRICO FI NZI RITA RUSIC BARBARA PALOMBELLI FILIPPO LA MANTIA LA MANTIA LETTA MORABITO

 

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