IN UNA SOCIETA' "LIQUIDA" LA RABBIA ESPLODE A SPRUZZO – SENZA UN FORTE CONTROLLO SOCIALE DI PARTITI, SINDACATI, CHIESA, IL MALESSERE SOCIALE DIVENTA INSTABILE E POTENZIALMENTE ESPLOSIVO - PANARARI: “PRIMA ESISTEVANO LE ‘BANCHE DELLA RABBIA’, ATTORI POLITICI E ISTITUZIONALI, CHE RACCOGLIEVANO E ‘STOCCAVANO’ LA RABBIA SOCIALE, COLLOCANDOLA ALL'INTERNO DI UN PROCESSO STORICO. ORA ALCUNE DI QUESTE SI SONO INDEBOLITE E ALTRE SONO FALLITE. ORA VIENE SFRUTTATA E CAVALCATA DAI NUOVI IMPRENDITORI DEL MERCATO ELETTORALE…”

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Massimiliano Panarari per “La Stampa - Specchio”

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C'è rabbia on the air. Tanta, tantissima, e non da oggi. La rabbia attraversa senza sosta e alimenta lo spirito dei tempi di questa nostra nuova «Età dell'ansia 2.0» che con quella originale degli anni Venti e Trenta del secolo breve presenta alcune preoccupanti similarità e affinità. Una rabbia individuale, monadica, che si incanala negli sciami digitali, e si esprime nell'incivility di cui ci tocca fare quotidiana esperienza, nostro malgrado, sui social network.

 

Ma assistiamo anche all'affacciarsi di fiammate di rabbia politica, che trovano nella vita pubblica e nei suoi protagonisti il loro innesco (dopo l'insediamento del governo Meloni), o sembrano riproporre echi degli anni Settanta (come negli scontri a La Sapienza).

 

FERNARDEL E GINO CERVI DON CAMILLO E PEPPONE FERNARDEL E GINO CERVI DON CAMILLO E PEPPONE

Mentre monta l'inquietudine - segnalata a più riprese e da tempo dagli apparati di sicurezza - per questo possibile autunno caldo (non meteorologicamente, ma dal punto di vista delle tensioni sociali).

 

Ed è, a suo modo, qualificabile come una forma di rabbia politica - perché riferita alle decisioni intorno al destino collettivo - quella che anima gli episodi sempre più frequenti di ecovandalismo all'assalto delle opere d'arte nei musei (come palese, al di là della "buona fede" dei suoi militanti, la modalità più sicura per non fare guadagnare consenso a una causa di straordinaria importanza). E, soprattutto, ne riconosciamo distintamente la matrice nelle insorgenze dei movimenti più famosi dell'ultimo decennio, da Black Lives Matter ai gilet gialli.

 

Non è un pranzo di gala

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A dire il vero, però, la rabbia apparterrebbe - al pari della totalità degli stati d'animo e dei sentimenti - alla sfera della prepolitica, da cui scaturiscono, una volta raffinate e indirizzate verso obiettivi collettivi, quelle che la filosofa Martha Nussbaum ha chiamato in un suo libro le Emozioni politiche (Il Mulino).

 

Emozioni che possono essere costruttive oppure distruttive, come quelle prevalenti da qualche decennio, da quando siamo sprofondati in un'epoca di spinoziane «passioni grigie», in un presentismo senza grandi speranze di futuro, e - proprio per questo - nella retrotopia che rimpiange nostalgicamente un passato ideale che di ideale, in realtà, nulla possedeva davvero.

 

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Nell'epoca della politica razionale post-illuministica e delle ideologie, come ha scritto Peter Sloterdijk, esistevano le «banche della rabbia», ovvero degli attori politici e istituzionali (dalla Chiesa cattolica ai partiti di integrazione sociale di massa) che la raccoglievano e "stoccavano", dandole una forma e collocandola all'interno di un processo storico.

 

Beninteso, la rabbia non è mai stata "un pranzo di gala" (come nel caso della lotta di classe) ma, tramite il processo descritto dal pensatore tedesco, essa diveniva giustappunto politica e pubblica, risultando dilazionata, in qualche modo attenuata, e inserita all'interno di una dinamica temporale finalistica e teleologica, fondata sul progresso, per la quale, nel futuro, la capacità di "controllarsi" e trasformarla in azione collettiva sarebbe stata premiata dalla vittoria e dal cambiamento in meglio della società.

 

Vincitori e vinti

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Con l'avvento della postmodernità alcune di queste «banche della rabbia» si sono indebolite e altre sono fallite ("per insolvenza", si potrebbe dire...) o hanno dovuto portare i libri contabili in tribunale; e, così, la rabbia è stata sfruttata e cavalcata direttamente da certi nuovi imprenditori che si immettevano sul mercato elettorale.

 

Si pensi, per fare un esempio, al rancore popolare generalizzato che ha travolto la Prima Repubblica in Italia a cavallo degli anni di Tangentopoli (dove non tutti gli arrabbiati erano così innocenti come volevano farsi credere...). La rabbia è diventata, così, il propellente e il combustibile utilizzato innanzitutto da leader e partiti populisti per arrivare ai loro trionfi elettorali, innestandola su quella frattura tra vincenti e perdenti della globalizzazione, allargatasi via via, insieme alle disuguaglianze economiche, che la sinistra storica ha perso di vista (o non riesce a interpretare in maniera convincente per chi paga - o ritiene di pagare - il prezzo più alto delle nuove divaricazioni sociali come pure culturali).

 

L'anima "glocal"

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La rabbia offre una chiave di lettura politologica complessiva - come nell'affresco su L'Età della Rabbia (Mondadori) di Pankaj Mishra, che ravvisa il padre putativo novecentesco del nazionalpopulismo in Gabriele D'Annunzio - e, in particolare, sull'Occidente contemporaneo, sempre più liquido e percorso da ondate ininterrotte di antipolitica (come raccontano anche i saggi del n. 3/2022 della rivista Civiltà delle Macchine diretta da Marco Ferrante).

 

Uno stato d'animo autenticamente glocal, che sgorga sovente dall'impotenza dell'io individuale e va alla ricerca di un palcoscenico pubblico per sfogarsi, anche a causa dell'assenza di una rappresentanza politica - così come di un discorso pubblico condiviso - a cui fare riferimento. E per capirla a fondo possiamo riprendere, ancora una volta, le pagine della Trilogia della rabbia, il capolavoro di Luciano Bianciardi (ripubblicato adesso da Feltrinelli).

 

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