LA DELUSIONE AMERICANA - IL PROBLEMA NON È OBAMA MA È L’ARROGANZA CON CUI GLI AMERICANI SONO CONVINTI DI ESSERE INVESTITI DI UN RUOLO “ECCEZIONALE” NEL MONDO

Ian Buruma per "La Repubblica"

Questo mese ricorre il cinquantesimo anniversario dell'assassinio del presidente John F. Kennedy, avvenuto a Dallas, in Texas. A molti americani piace credere che quel tragico evento segnò la fine dell'innocenza per l'intera nazione. Naturalmente è una sciocchezza: la storia degli Stati Uniti, come quella di ogni Paese, è intrisa di sangue.

Tuttavia la presidenza Kennedy oggi ci appare come un momento apicale del prestigio americano. A meno di cinque mesi dalla sua morte violenta, Kennedy aveva suscitato con le sue famose parole "Ich bin ein Berliner" un entusiasmo quasi isterico nella moltitudine di tedeschi che lo avevano accolto a Berlino, frontiera della Guerra fredda.

Per molti milioni di persone, l'America di Kennedy era un simbolo di libertà e di speranza. E come il Paese da lui rappresentato, Kennedy - insieme alla moglie, Jacqueline - appariva giovane, affascinante, ricco e pieno di energia positiva. Gli Usa erano un Paese a cui guardare, un modello, una forza del bene in un mondo pieno di male.

Quell'immagine sarebbe stata presto gravemente compromessa dagli assassinii di Kennedy, di suo fratello Bobby e di Martin Luther King Jr., ma anche dalla guerra del Vietnam - che Kennedy aveva intrapreso. Se Kennedy fosse riuscito a portare a termine il proprio mandato, è improbabile che il suo retaggio avrebbe potuto rivelarsi all'altezza delle aspettative da lui ispirate.

Per un breve momento, quando gli americani elessero il loro primo presidente di colore - anch'egli giovane e pieno di speranze - si è avuta l'impressione che gli Stati Uniti avessero riconquistato parte di quel prestigio di cui avevano goduto nei primi anni Sessanta. Al pari di Kennedy, anche Barack Obama tenne un discorso a Berlino, addirittura prima di essere eletto, di fronte a una folla adorante composta da non meno di duecentomila individui.

Tuttavia, quella promessa iniziale non è mai stata mantenuta. Il prestigio degli Usa è diminuito drasticamente, e la loro politica interna è talmente avvelenata da una partigianeria provinciale (soprattutto sul fronte dei repubblicani, che hanno odiato Obama dall'inizio) che la stessa democrazia sembra uscirne danneggiata. La disuguaglianza economica è più profonda che mai. E ponti, autostrade, ospedali e scuole cadono a pezzi. Rispetto ai principali aeroporti della Cina, oggi quelli che servono la città di New York City appaiono arcaici.

In politica estera gli Usa sono visti come degli spacconi o dei codardi. I più
stretti alleati dell'America, come la cancelliera tedesca Angela Merkel, sono furenti per la questione delle intercettazioni. Altri, in Israele e in Arabia Saudita, ma non solo, sono disgustati da quella che considerano la debolezza americana. Persino il presidente russo Vladimir Putin, leader autocratico di una traballante potenza di serie B, riesce a fare bella figura rispetto all'appannato Obama.

È facile addossare la colpa dell'attuale, pietosa situazione al presidente americano, o alla sconsideratezza dei repubblicani. Così facendo, però, si perderebbe di vista l'aspetto più importante del ruolo dell'America nel mondo. Perché all'origine del declino del prestigio internazionale dell'America vi è lo stesso idealismo che rese così popolare Kennedy.

Ad alcuni dei più ardenti ammiratori di Kennedy ancora piace credere che se egli fosse vissuto più a lungo avrebbe impedito l'escalation della guerra del Vietnam. Non vi esiste alcuna prova che possa dimostrarlo. Kennedy era un irriducibile della Guerra Fredda, e il suo anti-comunismo si esprimeva sotto forma di idealismo americano. Come egli affermò nel suo discorso inaugurale: «Pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo qualunque peso, affronteremo ogni difficoltà, sosterremo qualsiasi amico, ci opporremo a qualsiasi nemico, pur di garantire la sopravvivenza e il trionfo della libertà».

L'entusiasmo verso la missione che l'America aveva scelto per sé - quella di battersi in tutto il mondo in nome della libertà - fu scalfito (all'interno degli stessi Stati Uniti) dalla sanguinosa catastrofe del Vietnam: una guerra che non liberò i vietnamiti e anzi costò la vita a circa due milioni di loro.

Per resuscitare la nobile retorica sugli effetti liberatori del potere militare degli Usa ci fu bisogno di un altro disastro, ben più circoscritto. I motivi che spinsero il presidente George W. Bush ad andare in guerra in Afghanistan e in Iraq furono indubbiamente complessi: tuttavia, il linguaggio dei neo-con che promossero quella guerra derivava direttamente dall'era Kennedy: la diffusione della democrazia, la causa della libertà, e l'universale autorevolezza dei "valori americani".

I motivi che nel 2008 hanno spinto gli americani ad eleggere Obama nascono in parte dalla constatazione che la retorica dell'idealismo Usa aveva ancora una volta prodotto la morte e il dislocamento di milioni di individui. Adesso, quando i politici Usa parlano di "libertà", la gente pensa ai bombardamenti, alle camere di tortura e alla costante minaccia dei letali droni.

Il problema dell'America di Obama affonda le proprie radici nella natura contraddittoria della sua leadership. Obama aveva preso le distanze dalla missione americana di liberare il mondo con la forza. Ha posto fine alla guerra in Iraq e presto farà altrettanto in Afghanistan. Inoltre, ha resistito alla tentazione di dichiarare guerra all'Iran e alla Siria. Ma a coloro che vedono negli Usa una potenza in grado di porre rimedio a tutti i problemi del mondo, Obama appare debole e indeciso.

Inoltre, egli non è riuscito a chiudere l'assurda prigione Usa a Guantánamo Bay. Chi rivela informazioni riguardo alle attività di spionaggio nazionale ed estero viene arrestato. Il ricorso ai droni è sempre più frequente, e mentre i combattimenti a cielo aperto diminuiscono, le guerre occulte si intensificano e si diffondono - e l'immagine dell'America sprofonda ogni giorno più in basso.

Il problema principale però non è Obama; è l'arroganza con cui gli americani sono convinti di essere investiti di un ruolo "eccezionale" nel mondo. Una convinzione che troppo spesso è stata sfruttata per promuovere guerre superflue. Non solo l'idealismo degli americani li ha portati ad aspettarsi troppo da se stessi: anche il resto del mondo ha spesso riposto troppe aspettative nell'America. E aspettative simili non possono che andare deluse.
(Traduzione di Marzia Porta)

 

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