Mirella Serri per “la Stampa”
Oggi ricorrono 75 anni dalla prima festa della donna bell'Italia post-bellica con le strade e le piazze piene di mimose. E il 10 di questo stesso mese ricordiamo il trionfale battesimo delle donne che nel 1946, per la prima volta nella storia d'Italia, divennero elettrici ed entrarono anche come protagoniste nell'agone della politica con incarichi decisionali, di responsabilità e di prestigio.
Le prime dieci che indossarono la fascia tricolore di sindaco erano Ninetta Bartoli, Elsa Damiani, Margherita Sanna, Ottavia Fontana, Elena Tosetti, Ada Natali, Caterina Tufarelli Palumbo, Anna Montiroli, Alda Arisi e Lydia Toraldo Serra. Con la tornata elettorale che coinvolse 5722 tra città e paesi irruppe nei consigli comunali la carica delle duemila neonominate. Errore o lapsus freudiano? L'orgoglio femminile per questa doppia ricorrenza era alle stelle ma la parità di genere rimaneva un miraggio.
Si inaugurò in quel primo momento di gloria una tradizione che arriva ai nostri giorni: dal governo De Gasperi II, il primo della Repubblica, al Conte II, su 4.864 presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari, le esponenti di sesso femminile sono state solo 319, il 6,56 per cento del totale.
Le donne occupano oggi solo un terzo delle cariche politiche nazionali e nei governi in cui sono entrate non hanno mai ottenuto alcuni ruoli chiave come il ministero dell'Economia, e tantomeno, la carica di presidente del Consiglio. L'avventura nell'emiciclo parlamentare e in generale nelle istituzioni si è trasformata in un perenne braccio di ferro poiché, come ha affermato la storica Michelle Perrot, in Italia le donne in politica non sono facilmente accettate.
Questo si capì fin dal primo approccio: le candidate che si presentarono alle amministrative del 1946 furono ammesse per il rotto della cuffia. Il decreto legge del primo febbraio 1945 che sanciva il suffragio femminile per un errore (o lapsus freudiano? chissà!) riconosceva alle donne l'elettorato attivo ma non quello passivo, cioè potevano votare ma non essere elette. Rimediata la svista, le deputate entrate a far parte dell'Assemblea Costituente furono uno sparuto gruppetto, 21 su 556 membri.
Nel discorso per l'insediamento a Montecitorio la democristiana Angela Maria Guidi Cingolani rivendicò che il voto alle italiane non era «un premio ma un diritto».
La partigiana Teresa Mattei Non la pensavano così gli onorevoli colleghi: nella commissione composta da 75 membri incaricati di stendere il progetto generale della Costituzione le donne furono solo 5. Nel comitato di redazione che scrisse il testo finale vi erano solo uomini. Alle deputate furono assegnati come temi peculiari «la famiglia e l'uguaglianza dei coniugi», ricordò Nilde Iotti, nonché «il diritto al lavoro e la tutela dei figli anche illegittimi». Ma le grandi madri costituenti erano state protagoniste della lotta partigiana, del mondo del lavoro e dell'impegno sindacale. I giornali ne sminuivano continuamente l'autorevolezza.
Di Alcide De Gasperi sottolineavano il «piglio onesto e infaticabile», Luigi Longo lo descrivevano come «laborioso e diligente» e Palmiro Togliatti come un grande leader persino attento alla famiglia. Ma della deputata venticinquenne Teresa Mattei ricordavano solo che i partigiani la chiamavano Chicchi. Sorvolavano sul fatto che, durante un'azione di combattimento, la Mattei era stata catturata, torturata e selvaggiamente violentata dai tedeschi. Quando Chicchi rimase incinta di un uomo sposato, Togliatti giudicò sconveniente che proseguisse l'esperienza politica.
L'«onorevolessa» Le maggiori testate si deliziavano poi per il vestito à pois di Nilde Iotti, trascurandone l'adesione ai Gruppi di difesa della donna; della Cingolani, definita per «scherno l'«onorevolessa», deprecavano l'abito nero senza rilevarne la competenza sul mondo del lavoro, e della socialista Bianca Bianchi dicevano che era la più bionda di Montecitorio ma non rammentavano il curriculum di valente giornalista.
Tutte le signore, inoltre, erano accomunate dal fatto «che non fumano e vestono con sobrietà». Le deputate, anche se di orientamenti politici diversi, riuscirono a imporsi e a fare squadra: per esempio, fu esclusivamente loro il merito di aver introdotto il principio dell'uguaglianza dei diritti con l'articolo 3 il quale recitava che «i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». I padri costituenti non volevano comunque lasciare libero il campo alle esigenze femminili.
Le onorevoli Maria Maddalena Rossi e Teresa Mattei proposero l'emendamento secondo cui «le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura». Per battersi a favore di questa soluzione la Rossi evocò Teresa Labriola e pure il personaggio di Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare perché dotate «di sensibilità e di conoscenza profonda del diritto».
Femminilità vs razionalità Ma il democristiano Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica, ebbe la meglio discettando che la «femminilità» era in conflitto con la «razionalità» maschile necessaria per operare nei tribunali. Insomma le donne non avevano una testa e un cervello adatte a presiedere una Corte. Solo nel 1965 venne varato il primo concorso perché la magistratura potesse tingersi di rosa e adesso il numero delle donne magistrato ha superato quello dei colleghi maschi, mentre sono ancora poche le toghe femminili che accedono agli incarichi di vertice.
Passi avanti e passi indietro Bisognò poi aspettare il 1976 per avere la prima donna ministro, con Tina Anselmi al dicastero del Lavoro e della Previdenza sociale, ma l'Italia è ancora oggi tredicesima in Europa per percentuale di donne ministro, decisamente sotto la media dell'Ue. Per le donne in politica a ogni passo avanti ne corrispondono parecchi indietro. L'esecutivo guidato da Matteo Renzi raggiunse la parità tra i due sessi ma solo per otto mesi. Nei governi successivi l'incremento della rappresentanza femminile ha avuto di nuovo varie battute di arresto e oggi nel governo presieduto da Mario Draghi le donne sono 8 contro 15 uomini: una partita squilibrata.