GIMONDI E "IL CANNIBALE" – VITTORIO FELTRI RICORDA IL GRANDE “BERGAMASCO” E LE EPICHE SFIDE CON MERCKX – "LOTTAVAMO SEMPRE, DICEVA 'FELIX'. BATTENDOMI, IL BELGA MI HA PREPARATO ALLA VITA E MI HA INSEGNATO CHE NON TUTTO E’ FACILE" – LA VOLATA PERFETTA AL MONDIALE DI BARCELLONA DEL ’73 - BARTOLETTI: ‘DI LUI RUGGERI HA SCRITTO E CANTATO: 'DEVI DARE TUTTO PRIMA CHE TI LASCI PASSARE...NON CI PENSARE, NON MI STACCHERO’. ECCO SE NE E’ ANDATO UN UOMO COSI’" – VIDEO

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VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano

 

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Una volta è successo che un uomo qualunque, che di mestiere guidava dei camion con sei o anche otto ruote e sul suo camion guardava il mondo da un metro e mezzo più in alto, abbia avuto un figlio cui di ruote ne bastavano due, sottili sottili, che gli tiravano fango sulla faccia, e tutti sapevano il suo nome. Il figlio non trasportava merci, ma le cose ugualmente pesanti e ingombranti che porta sulle spalle un campione: talento, sudore, tenacia, solitudine, infine gloria.

 

Sto parlando di Felice Gimondi, bergamasco, ciclista, vincitore per tre volte del Giro d' Italia (nel 1967, 1969, 1976), del Tour de France nel 1965 - l' anno prima aveva conquistato il Tour de l' Avenir, corsa francese per gli under 23 - e della Vuelta a España nel 1968.

 

Ho scritto "bergamasco" come primo aggettivo, non a caso: ho deciso di raccontare di Gimondi perché è uno sportivo memorabile, certo, 81 vittorie in quattordici anni di carriera, ma anche perché i bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l' Atalanta, e Gimondi.

 

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Nato nel settembre del 1942 a Sedrina, a quindici chilometri dal capoluogo orobico, Felice è il secondo di tre figli. La mamma faceva la postina, pedalava su e giù per la montagna - ché Sedrina, un comune che ora conta duemila abitanti o poco più, è proprio all' imbocco della Val Brembana ed è già montagnoso - e il babbo aveva una piccola impresa di trasporti con i cavalli: passò dieci anni in Brasile, poi tornò in Italia e cominciò con i camion: il primo, racconta Gimondi, era un Bl che andava a legna, con la cisterna su un lato.

Il papà compra a Felice la prima bicicletta come premio per essere stato promosso in terza elementare.

 

Era una "Ardita", rossa: «Avevo sette o otto anni. Ero così contento che la inforcai subito, ma caddi e mi ruppi un dente». Come esiste la fortuna dei dilettanti, un caso di sfortuna dei campioni. Ma la prima bici vera, da corsa, arriva a sedici anni. Come nella maggior parte delle famiglie, in quei tempi di soldi non ce ne sono granché e allora il padre promette al secondogenito che se l' avesse accompagnato a fare una consegna nel cremonese (il trasporto era di sabbia del Po, allora non si usava il gesso per costruire le case) e se avesse ricevuto subito il denaro - era un cliente che non pagava mai - avrebbe fatto l' acquisto tanto desiderato.

 

Al ragazzino andò grassa: il cliente saldò 30mila lire e Felice ebbe la bici, una Maffioletti usata. «Lasciai gli zoccoli in mano a mio padre, saltai in sella e pedalai a piedi nudi fino a casa. All' inizio non arrivavo nemmeno ai pedali e allora mettevo una gamba di traverso in mezzo ai tubi del telaio per poter pedalare».

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In realtà, Felice "correva" già da un po': capitava spesso che sostituisse la madre nel lavoro di postina e percorreva le strade sterrate della Val Brembana su una bici da donna per consegnare lettere, pacchi, cartoline. Fu una palestra formidabile. Il telaio allora pesava quindici chili, e in più c' era il portapacchi.

 

Così, con le gambe forti da postino di riserva, il giovane Gimondi entrò nella Sedrinese, una piccola società con cinque o sei corridori, «dove non c' era pressione di fare risultato ma ci si divertiva molto», racconta, «e ognuno faceva la sua corsa».

 

Ha 22 anni quando diventa professionista, vince a sorpresa il Tour de France: non avrebbe nemmeno dovuto correre e pensava di puntare, al massimo, alla maglia bianca di miglior giovane. Arrivò alla gara sostituendo Battista Babini, come gregario di Vittorio Adorni, suo compagno di squadra. Ovvero, avrebbe dovuto aiutare Adorni a vincere, che quell' anno, il 1965, se la vedeva con il favoritissimo francese Raymond Poulidor. Gimondi aveva una bici color del cielo, una Chiorda marchiata Magni («Ci vinsi anche la Roubaix e il Lombardia», racconta), e una forza esuberante, spregiudicata. Mai si era visto un giovane, uno appena arrivato, andare in fuga da solo. Dopo la terza tappa non mollò più la maglia gialla: a un certo punto Adorni dovette ritirarsi per un' intossicazione alimentare e i piani finirono stravolti.

 

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Gimondi resistette a Poulidor sul Mont Ventoux e vinse due tappe a cronometro, che gli valsero la vittoria al suo primo tentativo. A portare a casa quell' impresa, prima di lui, c' era riuscito solo Fausto Coppi. E così, il giovane di Sedrina che avrebbe dovuto correre solo la prima delle tre settimane del tour - il padre lo aspettava a casa perché all' epoca Felice lavorava con lui - divenne il quinto italiano nella storia a vincere la Grande Boucle.

 

Nel frattempo, Gimondi si era sposato con una ragazza che aveva conosciuto in Liguria, a Diano Marina, in vacanza, prima di diventare famoso.

 

Tiziana Bersano è nata in una famiglia di albergatori ed era abituata alle discoteche, a stare in mezzo a gente in ferie, e ha 19 anni quando si ritrova a Sedrina. «Un incubo», dice del suo primo periodo bergamasco; e «disastroso» il suo primo impatto con gli "indigeni". «Il primo ricordo che ho di Sedrina è una panchina in pietra su cui erano sedute delle signore vestite di nero, con dei vestiti luuuunghi e neri». Felice sostiene che metà delle sue vittorie sono merito di Tiziana, ed è vero: hanno passato la vita insieme, mai si è sentito un pettegolezzo su di lei o su di lui, innamoratissimi l' uno dell' altra («per me andava bene lei, e basta»), con due splendide figlie, Norma e Federica. La prima delle due, Norma, avrebbe avuto la voglia e le capacità per seguire le orme del padre: «Sono stata io a impedirle di fare l' agonista. Volevo che studiasse.

 

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Studia che è meglio, il ciclismo quanto ti dura?, le dissi», racconta Tiziana, «Però lei è un' atleta, ha uno stile perfetto, una bella postura. E poi ha grinta»). Tiziana ha imparato ad amarci, noi bergamaschi, testoni e chiusi e montanari («L' unica festa che Felice mi lasciava fare era quella di Capodanno, venivano anche sessanta persone»), il nostro dialetto è diventato la sua lingua e dice di aver imparato da noi l' affetto vero, «l' ho capito il giorno che hanno festeggiato i settant' anni di mio marito. Una festa bellissima. Un affetto sincero».

 

Tiziana, quindi, è la prima persona, oltre a Gimondi, che ha fatto grande Gimondi. La seconda è quel bandito di Eddy Merckx, quel belga, considerato il più grande, il ciclista più completo di tutti i tempi. Lo chiamavano il Cannibale, tanto era cattivo (Vittorio Adorni, che corse in quegli anni, ha raccontato che Merckx era competitivo anche quando partecipava a una gara insignificante: se c' era un traguardo parziale con un salame come premio, «lui faceva la volata per vincere il salame»), e Gimondi, che invece era un campione gentile, psicologicamente agli antipodi, se lo trovò sempre tra i piedi. «Ho dovuto correggere il mio modo di essere, il mio modo di correre. Prima non prenderle e poi, se possibile, dargliele. Perché era dura dargliele, a quello lì». Certamente una sfortuna, ma fu anche una delle sfide più appassionanti della storia del ciclismo: «Lottavamo sempre con il coltello tra i denti», sintetizza Felice, «la nostra generazione ha reso il ciclismo epico e leggendario. Abbiamo corso insieme tanti anni (dal 1964 al 1978, ndr) e sono stati anni di battaglie».

 

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Insomma, Gimondi per noi era stato il più grande di tutti, finché non è arrivato quel belga a rovinarci la festa. Ai Mondiali nel 1971, Merckx gli soffiò la vittoria in volata, negli ultimi chilometri c' erano stati solo loro due. Il giorno dopo, il titolo del giornale era: «Eddy Merckx campione del mondo. Gimondi batte il resto del mondo». Ma il bergamasco aveva già metabolizzato l' andazzo: nel 1970, durante un' intervista su TeleMarche, una rete francese, Felice disse: «Ritengo che Merckx mi abbia preparato alla vita, che mi abbia insegnato che non tutto è facile». L' intervistatore, lo punzecchiò: «E cioè? Battendola?» - «Sì».

 

Per questo, la gara più bella, quella che è rimasta nel cuore di tutti, è il Campionato del mondo nel 1973, a Barcellona, al Circuito del Montjuic: quattordici chilometri e mezzo da percorrere diciassette volte, Gimondi ha già 31 anni e oltre a Merckx ci sono l' olandese Freddy Maertens, che in volata è un drago, l' olandese Zoetemelk, lo spagnolo Ocaña. E il caldo è da capogiro, l' asfalto sembra sciogliersi tanta afa c' è. All' undicesimo giro, a ottanta chilometri dal traguardo, Merckx - che mai come in quella stagione era sembrato un dio, imbattibile: aveva vinto la Parigi-Roubaix, la Liegi Bastogne Liegi, il Giro d' Italia e la Vuelta di Spagna - lancia l' attacco. Gimondi riesce a portarsi a ruota con Ocaña, l' altro spagnolo Domingo Perurena, il compagno di squadra Giovanni Battaglin, Zoetemelk e Maertens. Ma Merckx al quindicesimo giro fa un altro allungo, e rimangono in quattro: il Cannibale, Maertens, Gimondi e Ocaña. «Maertens era il più veloce.

 

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Sento che lui e Eddy si mettono a parlare: non capisco una parola di fiammingo, però sapevo cosa stava succedendo», racconta Felice, «Maertens gli tira la volata, ma quando Eddy gli arriva alla pedaliera, afferro che per una volta non è lui che dovrò battere». E infatti sul rettilineo finale Maertens è impegnato a lanciare lo sprint a Merckx, che però, un po' per stanchezza un po' perché Maertens aveva avviato la volata con un impeto eccessivo, perde l' attimo buono per lo sprint finale.

 

Sulla linea del traguardo, Maertens e Gimondi si tirano una spallata, poi con un colpo di reni l' italiano mette la ruota davanti e alza il braccio al cielo. Felice Gimondi è campione del mondo. «Maertens voleva darmi una gomitata», dirà poi, «ma alla fine la spallata gliel' ho data io. È stata la mia volata perfetta». Da quel momento il bergamasco, dalla penna geniale di Gianni Brera, divenne "Felix de Mondi" (più tardi, nel 1976, dopo aver vinto il Giro d' Italia a 34 anni e dato per finito, divenne "Nuvola rossa"). Ancora oggi nessuno è riuscito a battere il suo record al Giro: nove volte sul podio con tre primi, due secondi e quattro terzi posti). La prima cosa cui pensò, dopo la vittoria spagnola, è casa: «Mia moglie aspettava la mia bambina, Federica.

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È nata il 20 settembre e avevo paura di aver creato un negativo di emozioni».

Ancora oggi, superati i settant' anni e nonostante gli acciacchi - dopo una frattura alle vertebre deve andarci cauto - continua a sputare la vita in bici. Ha fondato una scuola di mountain bike insieme con monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè (è un piccolo comune a meno di dieci chilometri da Bergamo) per i ragazzini dagli 8 ai 13 anni. E da 23 anni a Bergamo si corre la Granfondo Internazionale dedicata al campione: una gara internazionale aperta a tutti coloro che, su e giù per le montagne della provincia - da Colle del Gallo a San Pellegrino Terme fino a Costa Valle Imagna - adorano sudare come leoni marini. Corrono nel mese di maggio, questi umani bizzarri che amano la fatica, e la città si ferma.

marino bartoletti marino bartoletti

 

GIMONDI

Dal profilo Facebook di Marino Bartoletti

Quanti sono i ricordi? Cento? Mille? So solo che adesso fanno tutti male. Anche quelli che fino a oggi mi rendevano felice

 

Già, Felice… Ora è difficile persino pronunciare questo aggettivo: che diventa subito un nome… Perché tutto quello che era piacere, tenerezza, dolcezza, improvvisamente assume il sapore aspro del dolore. E quei ricordi più sono vicini al cuore e più lo feriscono

 

Scrivere di Gimondi la sera della sua morte è un esercizio crudele. Ma sento di doverglielo. E di doverlo a me stesso. C’è solo un problema: che quasi tutti i termini che forse con troppa facilità usiamo (soprattutto) nello sport in questo momento diventano inadeguati e sprecati rispetto alla grandezza umana prima che sportiva di Felice. Tenacia, lealtà, umiltà, onestà, generosità, correttezza, eleganza… E, usandoli, non sappiano se attribuirli al campione o all’uomo: che - non sempre accade - si assomigliavano terribilmente

E’ morto in mare: lui uomo di mezza montagna. Ancora quest’anno il Giro d’Italia aveva voluto onorarlo durante la 17esima tappa passando dalla sua Sedrina, all’imbocco della Val Brembana. E Felice, come sempre, aveva ringraziato con sincerità e modestia, come se le cose non gli fossero mai dovute

Felice Gimondi Felice Gimondi

 

Era apparso nel 1964 nelle nostre vite di appassionati di ciclismo (in quegli anni un po’ digiuni di soddisfazioni) vincendo a neanche 22 anni il Tour de l’Avenir quando questa corsa si era già segnalata come un prologo rivelatore di campioni autentici (e in fondo mantiene ancora il suo fascino e il suo significato se è vero che due anni fa vi ha trionfato Egan Bernal davanti, pensate un po’, al povero Bjorg Lambrecht). Diventò subito professionista alla Salvarani per imparare il mestiere accanto a Vittorio Adorni: che infatti vinse il Giro del 1965, con lo stesso Felice, devoto e incredulo, sul podio dietro a Zilioli. Ovviamente non sarebbe dovuto andare al Tour, ma il grande Luciano Pezzi, che ne aveva intuito le doti, fece “infortunare” il povero Bruno Fantinato, un onestissimo gregario, e lo imbucò nella squadra che aveva sempre Adorni come capitano. “Tu stai vicino a Vittorio, tieni gli occhi aperti e impara” gli disse

 

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Felice tenne gli occhi talmente aperti che al terzo giorno, azzeccando un’azione all’ultimo chilometro a Rouen, vinse la tappa e conquistò la maglia verde della classifica a punti, la maglia bianca come miglior giovane e la maglia gialla di leader. La sera stese tutte le maglie sul letto e arrivò tardi a cena per guardarle

Dopo quattro giorni perse il primo posto in classifica perché Adorni, il “capitano”, forò e lui, in giallo, si fermò ad aspettarlo senza che nessuno glielo avesse chiesto. “Perché ero in Francia per quello. Non feci altro che il mio dovere”. Poi il “capitano” dovette ritirarsi e per il giovane Felice iniziò il trionfo: tanto “facile”, malgrado la resistenza del povero Poulidor, quanto inarrestabile. Durante quel Tour che lo aveva proiettato nel mondo della gloria e delle favole pianse una volta sola: quando qualcuno gli disse che fuori dall’albergo c’era suo padre Mosè che lo aveva raggiunto, ma - da perfetto bergamasco - non aveva voluto disturbarlo. Lo trovò col cappello in mano che guardava le Alpi.

 

Lo abbracciò in lacrime. Al suo ritorno a Sedrina con l’Italia impazzita, la prima cosa che fece fu di andare all’Ufficio Postale per dimettersi da vice-portalettere (la titolare era sua madre Angela). Aveva capito che…poteva fare il ciclista. E se ci pensate già nel racconto di questa sua prima, straordinaria vittoria c’è tutto Gimondi: la sua tenacia, la sua lealtà, il suo talento, la sua modestia, la sua classe di uomo e di campione

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Il resto è storia ed albi d’oro: vincitore dei tre grandi Giri (secondo in assoluto a compiere quest'impresa), campione d’Italia e del Mondo, trionfatore di classiche-monumento. Coraggioso e mite allo stesso tempo. Durante il “Processo alla Tappa” del Giro del 1966, quando era già riconosciuto come un fuoriclasse, pronunciò una parola “proibita” (per l’esattezza disse “quelli della Molteni facevano un gran casino là davanti…”). La Rai lo “sospese” dal video intimandogli di scrivere una lettera di scuse per poter tornare ad essere intervistato. Lui lo fece: con convinzione e rispetto

 

In quel momento era il potenziale dominatore assoluto del ciclismo mondiale: poi arrivò il Cannibale. Che ora piange più di tutti. “Stavolta ho perso io” ha detto in lacrime. D’altra parte Gimondi, a chi lo stuzzicava su Merckx ha sempre risposto: “Perdere da lui non è mai stata una sconfitta, ma un onore”. E pensare che Felice, che era esploso "prima", sopravvisse sportivamente al suo rivale, vincendo l'ultimo Giro a 35 anni con Eddy ormai in declino.

 

Di lui Enrico Ruggeri in “Gimondi e il Cannibale” ha scritto e cantato: “…devi dare tutto prima che ti faccia passare. Io non mi lascio andare. Non ci pensare, non mi staccherò.…”

Ecco, oggi se n’è andato un uomo così

 

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