Matteo Boetti prefazione al libro "Don’t tell my mum I’m a cowboy in the morning" da "Il Manifesto"
Da mio padre ho imparato la magia dei numeri, le segrete geometrie della matematica, la simmetria paradossale tra moltiplicazione e divisione, la ricerca di un impossibile equilibrio tra caso, volontà e desiderio.
Altro che Santo Graal. Eppure, come molti sanno, i suoi scritti hanno qualità altamente evocative, una natura decisamente poetica. In una intervista dichiarò «non so se sono un bravo artista, ma spero di essere ricordato come un buon poeta». Il nostro Bukowski aristocratico.
Mia madre invece mi ha insegnato a costruire il pensiero, a strutturare un discorso, a dare corpo a un’idea, un sentimento. 70% tecnica, chiarezza, fluidità e 30% concetto, perché se quel trenta ha una qualche qualità basta anche il dieci. Infatti i suoi scritti – saggi, articoli, o testi critici – sono sempre fulminanti, calvinisti, lucidi come serial killer e paradossalmente fluidi, spesso ironici, facili da leggere (almeno per chi possiede il sesto senso boettiano: pensare).
Entrambi mi hanno inculcato il valore della curiosità, vero motore della crescita, delle necessarie metamorfosi, dell’intelligenza, della creatività. «It’s evolution baby» cantavano i Pearl Jam qualche anno fa. Lo sciamano showman e l’intransigente intellettuale (la cartesiana spaccapalle come la chiamava affettuosamente Boetti) mi hanno contagiato qualcosa delle loro rispettive formae mentis, diverse ma entrambe con un fondo maniacale e compulsivo.
Come loro, sono incapace di fare qualcosa solo per piacere o per passatempo, come loro devo trasformare tutto in lavoro, in impegno con scadenze e doveri. La gabbia dorata della progettualità e insieme la corona di spine della ricerca. Anne-Marie, come ogni brava madre, mi ha sempre spinto a cercare la mia strada, mi ha incoraggiato con infinito affetto che non sempre ho ricambiato. Il volume, realizzato con l’amico editore Londei e con gli artisti Bazan, Piccolo e Pontrelli, vuole essere un tentativo di compensare con un po’ di poesia, verbale e visiva, le ingiuste durezze della vita. Maurizio è un editore di indicibile finezza; Alessandro, Donato e Gioacchino sono artisti con cui lavoro da anni (…).
Per loro Anne-Marie ha scritto i testi critici, nel contesto di mostre da me curate o nelle quali c’era comunque il mio zampino galleristico. Ho poi raccolto alcuni miei versi, canzoni e idee per cortometraggi scritti tra il ’90 e il ’96 (solo 7 anni come Rimbaud, che blasfemo…) e chiesto ai tre artisti di commentarle visivamente. Ognuno di loro ha realizzato 27 disegni, per un totale perciò di 81 opere; inoltre ogni volume contiene uno degli 81 disegni originali, da cui il perché della limited edition a 81 esemplari. Alcuni dei miei scritti sono palesemente dedicati a mia madre, per altri solo il tempo e l’esperienza delle dinamiche mentali e affettive mi hanno permesso di ricollegarli a lei.ù
Alighiero-Boetti-Roma-©-Gianfranco-Gorgoni-New-York
Solo la distanza, temporale e spaziale, mi ha fatto capire che l’impulso originario, la matrice inconscia di questi slanci lirici fossero riconducibili a lei, al suo esempio, alle sue straordinarie qualità umane ed intellettuali, al suo amore per me e al mio amore per lei. Un classico caso edipico. Riconducibili, dicevo, a tutto ciò, ma anche alle sue stravaganze, e questo è meno noto.
Solo una matta poteva presentarsi a casa dei suoi – piccolo paese della provincia francese, anno 1959 — con un fidanzato nero (e tre anni dopo sposare Boetti). Solo un’illuminata avventuriera poteva decidere di seguire per amore il contrabbandiere di ceramiche di Vallauris attraverso i valichi alpini sterrati e non controllati a bordo di una Fiat 500 (sempre Boetti).
Solo una dadaista folgorata poteva accettare di partire da Torino il giorno di Natale, direzione Istanbul, per andare a bere un caffè come si deve (ancora Boetti, assieme a Salvo, con una DS Citroën da rottamare).
Anne Marie mi fece scoprire Vian, Camus, Rimbaud, Verlaine, Breton, Hesse. Ma anche Coltrane, Davis, Coleman, Joplin, Dylan e misconosciuti blues dei Rolling Stones tipo I’m going home. Nella Sauzeau appare talvolta questo insospettabile risvolto da cattiva ragazza che può farle dire «in fondo i Beatles erano dei fighetti snob» oppure «dammi una sigaretta che sono anni che non fumo».
Era lei a portarmi in giro per mostre, non Boetti. Fu lei a portarmi a vedere la Madonna del Parto a Monterchi, nel piccolo cimitero dove è sepolta la madre di Piero della Francesca. Negli anni più bui della nostra famiglia era lei la colonna, la garanzia di una parvenza di normalità.
Annemarie-Sauzeau-con-il-figlio-Matteo-Boetti
Nel ’77, in viaggio da soli mio padre ed io, non la chiamammo per giorni, Alighiero chiuso in hotel a progettare, oppure in una Opium House a «ammazzare il tempo». Io tutto il giorno a cavallo per le strade di Kabul, dico Afghanistan non Portofino. Ci dava per dispersi, ma stranamente non chiamò l’Interpol, aveva una strana fiducia in quell’uomo e un’enorme dose di ottimismo. Sauzeau è sempre stata coraggiosa, determinata malgrado i mille dubbi che affiorano solo nelle menti intelligenti.
Negli stessi anni in cui fonda la Casa Editrice Edizione delle Donne firma con Boetti l’ambizioso Concept Book "I mille fiumi più lunghi del mondo". Poco tempo dopo lascia l’uomo della sua vita, troppo incasinato e faticoso, per amore di noi figli, mia sorella Agata ed io, per proteggerci. (…) Che bello fu saperti orgogliosa e felice dei miei primi successi musicali e di galleria, l’algida rigorosa intellettuale francese diventava più tifosa e chiassosa di una matrona napoletana. Che bella che eri con il tuo caschetto di capelli neri e quei mini vestitini di zip multicolori di cui disegnasti un’intera collezione che destò scalpore nella conformista Torino della metà degli anni 60.
Quelle foto in bianco e nero di te e Ali, davvero vestiti solo di bianco e di nero, tu appesa al suo braccio, lui beffardo e sghignazzante, sul serio la coppia più sexy di quegli anni. Solo la Deneuve e Mastroianni si sono un po’ avvicinati al vostro livello di stile. (…) Qualche giorno fa, studiando una bella carta di Boetti in archivio, abbiamo decifrato un suo piccolo commovente testo (ovviamente scritto con la sinistra) dissimulato per pudore in uno dei collage dell’opera.
Dopo un lungo e farraginoso conto matematico da lui scritto per criptare l’anno di esecuzione si legge «estate orribile», seguito da pensieri e considerazioni varie, e si conclude con «addio Sauzeau amore mio». Volevo chiamarti per dirtelo, ma poi ho pensato che sentire un quarantacinquenne con tre figli grandi singhiozzare al telefono come un bimbo sarebbe stato quantomeno disdicevole, non appropriato. Sono pur sempre il Conte Boetti…eccheccazzo. (…) Quando poi arriverà il momento del tuo trasloco definitivo non preoccuparti, sono sicuro che ci ha visto bene William Blake: «sarà come alzarsi e andare in un’altra stanza». Probabilmente ti raggiungerò in un lasso di tempo che immagino non troppo lungo. Sai bene che, da Giovan Battista «Cheick El Mansur» Boetti fino a tuo marito, i Boetti maschi non campano poi tanto.
Siamo fatti così, punk da secoli, live fast die young. E ci va anche bene, stiamo più concentrati. Mi accoglierai sulla tua nuvoletta, stile un po’ Klee un po’ Matisse, con un tocco di Rothko, un briciolo di Cézanne, uno spruzzo di Monet, il tutto condito di tessuti Uzbechi. Montagne di libri ovunque. Dalle finestre ammireremo dei Constable e dei Turner. Mi preparerai del tè, il profumo di siò chai afgano e gelsomino si spanderà nell’aria, il sole farà risplendere la montatura dorata dei tuoi occhialini e mi addormenterò al dolce suono del ticchettio delle tue dita sui tasti dell’Olivetti 64. Non esiste suono che io ami più di quello.
Quel balletto meccanico denso di pause e sospensioni è per me quanto di più sinonimo ci sia dell’idea assoluta di «mamma». È la mia «madeleine». (…) Ultima cosa, probabilmente qualche pettegolo ha già spifferato tutto, ma devo confessartelo ufficialmente: io la mattina faccio il cowboy. Ti voglio bene Sozò.