E' FILANTROPIA O ELUSIONE FISCALE? - L'AMERICA È DIVISA SULLE MAXI-DONAZIONI: MOLTI MILIARDARI PAGANO MENO TASSE ANCHE GRAZIE AI VERSAMENTI ALLE FONDAZIONI UMANITARIE - PER I DIFENSORI DELLA DEDUCIBILITÀ VICEVERSA È GROTTESCO ADDITARE COME "FURBI" I GRANDI IMPRENDITORI CHE HANNO DECISO DI SPOGLIARSI DEI LORO PATRIMONI...

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Mario Platero per "Affari & Finanza - la Repubblica"

 

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Una notizia su Warren Buffett colpisce sempre. Quando poi l'oracolo di Omaha (Nebraska) si dimette dalla presidenza della Gates Foundation nel momento in cui Bill e Melinda Gates divorziano, ci si incuriosisce. Aggiungiamo che Bill è sotto il microscopio per capire la natura dei suoi rapporti con il predatore sessuale Jeffrey Epstein, e si passa al sensazionalismo.

 

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Nulla di strano se Buffett decide di lasciare la presidenza della Gates Foundation a quasi 91 anni, per favorire un rinnovamento. Tanto più che aveva già annunciato di voler lasciare tutti i consigli di cui era membro, con l' eccezione di Berkshire Hathaway, la sua holding. Né c'è polemica con Gates: i due sono amici da sempre e la lealtà reciproca potrà semmai essere rafforzata dal momento difficile del fondatore di Microsoft.

 

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Piuttosto, la vicenda Gates Foundation e l'uscita di Buffett hanno scatenato un altro dibattito ben più importante, che riguarda l'impianto fiscale su cui poggia la filantropia americana. In questo dibattito la voce di un accademico come Rob Reich (nulla a che fare con Robert Reich ex ministro del Lavoro nell'amministrazione Clinton) è emersa sopra quella di molti altri. Il titolo del suo ultimo libro in materia è eloquente: "Semplicemente donare: perché la filantropia sta tradendo la democrazia e come può migliorare".

 

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Reich non è solo nella denuncia contro la filantropia. Pro Publica, una non profit dedicata soprattutto a inchieste giornalistiche contro le ingiustizie sociali, ha pubblicato lo scorso 8 giugno un'analisi dettagliata delle dichiarazioni fiscali di molti miliardari e ha concluso che semplicemente non pagano tasse o le pagano in misura molto inferiore ai loro guadagni anche grazie a donazioni filantropiche. Nella lista ci sono Jeff Bezos, zero tasse sul reddito nel 2007 e nel 2011, Elon Musk, niente tasse nel 2018 e poi Michael Bloomberg, Carl Icahn o George Soros, che non ha pagato tasse per tre anni di fila. Nella lista c' è anche Warren Buffett. L' accusa: nel periodo fra il 2014 e il 2018 Buffett ha pagato "solo" 23,7 milioni di dollari in tasse anche se il suo patrimonio è aumentato di circa 24 miliardi di dollari.

 

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Nell'era delle disuguaglianze, il ravvivarsi della polemica pro o contro le donazioni, intorno alla notizia di Warren Buffett che lascia la fondazione Gates, era invitabile. Politici d' assalto come Alexandra Ocasio Cortez, la giovane democratica di New York a sinistra di Bernie Sanders, chiedono che le deduzioni per le donazioni vengano abolite e chiedono che per i più ricchi le aliquote fiscali arrivino al 70%.

 

La risposta di chi difende la filantropia e la deducibilità di importanti donazioni è semplice: ridicolo accusare di elusione fiscale miliardari che hanno deciso di letteralmente spogliarsi dei loro patrimoni con l' impegno - come quello di Warren Buffett - di donare il 99% della loro fortuna in beneficenza. Lo stesso Buffett è intervenuto nei giorni scorsi per rispondere alle accuse di pro pubblica: «È vero che il valore cartaceo delle mie azioni è aumentato di 24 miliardi, ma fino a quando non vendo, non devo alcun contributo fiscale sulla plusvalenza».

 

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Quando, il 23 giugno 2006, Warren Buffett e Bill Gates si presentarono nella grande sala da ballo dell' Hilton Hotel a New York per comunicare la nascita della loro alleanza filantropica, Buffett disse che non solo avrebbe donato la gran parte del suo patrimonio, ma che lo avrebbe donato principalmente alla Fondazione Gates per non disperdere gli sforzi e in misura minore ad altre quattro fondazioni. Gli chiesi: «Come hanno reagito i suoi figli? Lo chiedo perché so che in Italia avrebbero reagito male!». Sia lui che Gates fecero una sonora risata, e Buffett rispose: «I miei figli non avranno di che preoccuparsi, hanno più che abbastanza per vivere».

 

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Qualche anno dopo, il 4 agosto del 2010, Bill e Melinda Gates diedero notizia di un' importante operazione alla quale lavoravano da anni: l' impegno pubblico di 40 fra le famiglie più ricche d' America a donare almeno il 50% del loro patrimonio in filantropia. Negli anni, il numero è cresciuto fino a raggiungere complessivamente 62 famiglie per un impegno complessivo che vale alcune centinaia di miliardi di dollari.

 

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La cultura della restituzione, del "give back", è molto più radicata in America che in Europa e ha una tradizione che, rifacendosi ai mecenati fiorentini rinascimentali, risale ai Carnegie, ai Rockefeller a JP Morgan, considerati da una parte "Robber Barons" (Baroni Furfanti) ma dall' altra gli artefici di una filosofia filantropica che ha finito per creare oggi in America un settore centrale per l'economia del Paese: secondo gli ultimi dati disponibili, il "non profit" occupa 11,4 milioni di americani, pari al 10% della forza lavoro del Paese, la terza più importante dietro il settore al dettaglio e quello manifatturiero.

 

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Alla tradizione del "donare" inoltre partecipano milioni di americani anche con volontariato o con piccole somme: così nel 2019 sono stati donati 427,71 miliardi di dollari, distribuiti fra 1,54 milioni associazioni filantropiche. L'impatto sul Pil è del 5,6%, con un giro d' affari cumulativo di oltre mille miliardi di dollari all' anno.

 

E qui dobbiamo tornare alla questione politica. C'è intanto un costo per il contribuente pari al 74% della donazione secondo una stima di Chuck Collins dell'Institute For Policy Studies, mentre altri studi stimano il 37%. L'altro problema serio, secondo i critici, è quello di canalizzare voci di spesa che soddisfano più l'interesse o la causa preferita del donatore che quello della comunità nel suo insieme.

 

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I donatori di fatto si sostituiscono allo Stato nella determinazione di politiche sociali, di ricerca, e certo non si occupano, come farebbe lo Stato, di risolvere problemi davvero comuni come un ponte che crolla. Si cerca di capire dove e come si possa trovare un compromesso tra le forze in campo perché è ovvio che non si può cancellare un settore che vale quasi il 6% dell' economia del Paese. Buffett ha chiarito: «Ammetto che per l'utilizzo efficiente delle mie donazioni mi fido di più di una struttura privata che di chi può essere guidato o motivato da un interesse politico».

 

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Nel frattempo la Gates Foundation ha raggiunto un livello di occupazione di 1.600 persone. Ha certamente bisogno di una riorganizzazione e l'uscita di Buffet favorirà un ricambio. Intanto, non farà ponti, ma lotta per combattere la malaria e la Tbc in Africa. Buffet, sempre giorni fa, ha anche detto di aver fatto donazioni complessive per 41 miliardi di dollari e di essere a metà strada della sua promessa di donare il 99% del suo patrimonio. E ha risposto anche a Collins: il suo vantaggio fiscale è inferiore ai 40 cents per ogni mille dollari donati.

 

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