È IL PIÙ SCALTRO CRIMINALE O IL PIÙ GRANDE PERSEGUITATO DELLA STORIA D'ITALIA?
"VARIETY": SORRENTINO GENIO. 'IL DIVO' PIETRA MILIARE. PIÙ VIOLENTO DEL 'CAIMANO'"
"IL FOGLIO": "TESI DA FILM-HORROR: ANDREOTTI ERA A CAPO DI UNA BANDA CRIMINALE"
"VARIETY": SORRENTINO GENIO. 'IL DIVO' PIETRA MILIARE. PIÙ VIOLENTO DEL 'CAIMANO'"
"IL FOGLIO": "TESI DA FILM-HORROR: ANDREOTTI ERA A CAPO DI UNA BANDA CRIMINALE"
1 - "VARIETY": "SORRENTINO UN GENIO. 'IL DIVO' UNA PIETRA MILIARE" . "LE MONDE": "Più VIOLENTO DEL 'CAIMANO'"
Da La Stampa - «Un film politico, intenso, inventivo e arguto che diventerà una pietra miliare per gli anni a venire. Il Divo è un capolavoro del regista Paolo Sorrentino»: così scrive Jay Weissberg su Variety, la Bibbia internazionale del cinema, a proposito del secondo film italiano in concorso, accolto a Cannes con 15 minuti di applausi. La stampa internazionale sembra conquistata dal film di Sorrentino e dalla performance di Toni Servillo, attribuendo ad entrambi riconoscimenti come «genio» e «maestro». E sul sito di Variety c'è anche chi si spinge a dire che Soderbergh (autore del fluviale film su Che Guevara) avrebbe «qualcosa da imparare da Sorrentino». Per Le Monde, il film di Sorrentino è «feroce. Il Caimano non raggiungeva questa violenza».
2 - "IL FOGLIO" CONTRO: LA TESI DEL FILM: ERA A CAPO DI UNA BANDA CRIMINALE RESPONSABILE DI PARECCHI CADAVERI
Mariarosa Mancuso per Il Foglio
Piacerebbe a Repubblica se davvero Cannes fosse sotto choc per "Il divo" (l'applauso è stato tiepido, niente a che vedere con lo scroscio alla fine del "Che" di Steven Soderbergh, se non altro per grazia ricevuta delle quattro ore trascorse). Vorrebbe dire che Giuseppe D'Avanzo ha un futuro come consulente alla sceneggiatura. La scena che tra tutte abbiamo preferito vede Eugenio Scalfari di fronte a Giulio Andreotti, mentre da integerrimo giornalista gli elenca tutti i "si dice", chiedendogli ogni volta "è un caso?".
E via con Calvi, Sindona, Picciotta, Pecorelli, Dalla Chiesa, Ambrosoli, Falcone, Moro. Ribatte il divo Giulio: "E' un caso che io abbia contribuito a tenere in vita il suo giornale, con l'aiuto di Ciarrapico, cosa che consente a lei di venire qui per rivolgermi queste domande?". Più tardi, all'epoca del processo per mafia, Scalfari impettito nella cabina telefonica detta il pezzo con i punti, le virgole, le aperte virgolette, le chiuse virgolette e lo spelling del nome proprio Talleyrand.
Un attimo prima, il procuratore Caselli si è spruzzato tanta lacca sui capelli bianchi da aprire un altro buco nell'ozono. La tesi di Sorrentino - appena dissimulata dietro il registro grottesco, scandito dalle migliori battute andreottiane (lui sì che dovrebbe essere pagato, e bene, per la collaborazione alla sceneggiatura) - si può riassumere così: il senatore era a capo di una banda criminale responsabile di parecchi cadaveri. Delitti atroci e ben congegnati: prova ne sia che la magistratura nulla ha potuto, e nulla potrà fare, per incastrarlo.
Vediamo l'insediamento del settimo governo Andreotti, e poco dopo, dagli stessi corridoi lustri dove Cirino Pomicino si fa una pattinata, parte uno skateboard che finisce direttamente sul cratere dove morì Giovanni Falcone. Vediamo Andreotti alle corse dei cavalli - per crearsi un alibi? - e in montaggio parallelo l'uccisione di Salvo Lima, in puro stile Soprano o Padrino, scegliete voi. Vediamo Aldo Moro prigioniero, che compare nello specchio del bagno mentre Andreotti si lava le mani, neanche fossimo in un film dell'orrore (o in un film di Garrell, con la fidanzata morta che leva la pace al vivo).
Recitato con gigioneria da Toni Servillo, il divo somiglia al critico gastronomico di "Ratatouille", un tipaccio malmostoso che vive in una casa a forma di bara: trucco e orecchie esagerati, andatura da marionetta, bacio con Totò Riina al rallentatore. In casa Andreotti si prepara la minerale con le bustine di Idrolitina. Gli elettori vengono compensati con pacchi di spaghetti, caffé, anche soldi contanti messi in mano - orrore - a una signora.
3 - MISTERO ITALIANO: È IL PIÙ SCALTRO CRIMINALE O IL PIÙ GRANDE PERSEGUITATO DELLA STORIA D'ITALIA?
Fabio Ferzetti per Il Messaggero
Grandi risate all'inizio, attenzione concentrata, intenso applauso finale. Il divo di Paolo Sorrentino passa l'esame della stampa internazionale. Non era facile, per ciò che racconta e per le immagini che usa, forti e talvolta grottesche. Andreotti con la faccia irta di aghi contro l'emicrania che sembra uscito dal film dell'orrore Hellraiser. Cirino Pomicino neoministro che prende la rincorsa e si concede una lunga, bambinesca scivolata nel Transatlantico di Montecitorio. Il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano ritrovato impiccato nel 1982 a Londra, che sembra stare in piedi e fissarci. L'automobile di Falcone proiettata in alto dalla bomba che cade, cade, cade, come un meteorite, poi esplode.
E ancora: Andreotti e signora impettiti sul divano mentre intorno a loro l'ala gaudente della Roma di governo si sfrena ballando ritmi africani con ragazze poco vestite. Andreotti che legge un giallo a letto sotto un gran ritratto di Marx. Andreotti che riceve i membri della sua corrente mentre si fa radere, in stile Padrino. Andreotti che gira per casa di notte come Nosferatu. O come l'usuraio dell'Amico di famiglia, il film precedente di Paolo Sorrentino, che dopo aver raccontato mestatori in ombra o senza volto, sceglie il simbolo stesso del Potere per cercare di sciogliere questo enigma così domestico e indecifrabile insieme.
Il "divo Giulio" come icona dell'italianità, dunque. Un Borgia dei nostri giorni, maschera tragica e centro intoccabile di tutti i misteri (Montanelli: Andreotti è il più scaltro criminale o il più grande perseguitato della storia d'Italia). Ma anche dispensatore di battute leggendarie come la sua insonnia, che nella scena più bella (e più inventata) del Divo pronuncia invece una appassionata dichiarazione d'amore alla moglie culminante in una disperata ammissione di colpa per tutto «il male perpetrato per garantire il bene» negli anni terribili delle stragi, 1969-1976, con i loro 236 morti e 817 feriti.
Con Il divo Sorrentino non solo sferra la più violenta accusa alla classe politica italiana vista dai tempi di Todo Modo, ma cambia le regole della rappresentazione di quella stessa classe. Siamo in una specie di "quarta dimensione" dove la citazione di nomi, cognomi e soprannomi (lo Squalo, il Ciarra, il Limone, sua Sanità...) si mescola con effetto "pulp" alla deformazione grottesca dei volti (lo stile del trucco sfiora Dick Tracy), alle immagini d'archivio (Rosaria Schifani, vedova di un agente ucciso, che perdona in lacrime gli assassini di suo marito). E alle sferzanti lettere dalla prigionia di Aldo Moro.
L'effetto è potente, a tratti sconcertante. Scrive Moro: «Andreotti è rimasto indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo disegno di gloria... Cosa significava davanti a tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, che significava tutto questo per Andreotti una volta conquistato il Potere per fare il Male, come sempre ha fatto il Male nella sua vita? Tutto questo non significava niente».
Intanto la colonna sonora alterna l'elettronica a Vivaldi, i Ricchi e Poveri a Sibelius, ed è questo caos di forme e di registri che ci resta addosso. Che cosa abbiamo visto, una farsa, una tragedia, un film dell'orrore? Chissà, forse non c'era proprio niente da vedere. O magari è il nulla del potere, quello di cui parla Moro nel finale, che Sorrentino e il suo grande cast Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso ci hanno chiamati a contemplare.
4 - LE BATTUTE MIGLIORI DEL FILM BY GIULIO
Dal Messaggero - «Lei ha 6 mesi di vita, mi disse il medico di leva. Anni dopo lo cercai per dirgli che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così».
- «Mi hanno chiamato il divo Giulio, la prima lettera del'alfabeto, il gobbo, la volpe, l'eternità, Belzebù. Non ho mai sporto querela visto che possiedo il senso dell'umorismo. Possiedo anche un grande archivio e ogni volta che ne parlo, come d'incanto, chi deve tacere tace».
- «Non dico mai bugie, non ne sono capace. Chi non vuol far sapere una cosa non deve confidarla nemmeno a se stesso, perché non bisogna lasciare tracce».
- «Soffro per Moro, non riesco a togliermelo dalla testa. Perché non hanno preso me? Moro era un uomo debole, io sono forte. Volevano i segreti, ma certe cose Moro non sapeva nemmeno che esistessero. Con me parlavano un anno...».
- «A tutti i familiari delle vittime dico: sì, confesso, è stata anche colpa mia, la destabilizzazione del paese, il terrore, lo stragismo per isolare gli estremi e rinforzare il centro, cioè la Dc... L'hanno chiamata strategia della tensione ma era una strategia della sopravvivenza... Bisogna amare molto Dio per capire questa mostruosa, inconfessabile contraddizione, che bisogna perpetrare il male per garantire il bene, questo Dio lo sa e lo so anch'io».
Dagospia 25 Maggio 2008
Da La Stampa - «Un film politico, intenso, inventivo e arguto che diventerà una pietra miliare per gli anni a venire. Il Divo è un capolavoro del regista Paolo Sorrentino»: così scrive Jay Weissberg su Variety, la Bibbia internazionale del cinema, a proposito del secondo film italiano in concorso, accolto a Cannes con 15 minuti di applausi. La stampa internazionale sembra conquistata dal film di Sorrentino e dalla performance di Toni Servillo, attribuendo ad entrambi riconoscimenti come «genio» e «maestro». E sul sito di Variety c'è anche chi si spinge a dire che Soderbergh (autore del fluviale film su Che Guevara) avrebbe «qualcosa da imparare da Sorrentino». Per Le Monde, il film di Sorrentino è «feroce. Il Caimano non raggiungeva questa violenza».
2 - "IL FOGLIO" CONTRO: LA TESI DEL FILM: ERA A CAPO DI UNA BANDA CRIMINALE RESPONSABILE DI PARECCHI CADAVERI
Mariarosa Mancuso per Il Foglio
Piacerebbe a Repubblica se davvero Cannes fosse sotto choc per "Il divo" (l'applauso è stato tiepido, niente a che vedere con lo scroscio alla fine del "Che" di Steven Soderbergh, se non altro per grazia ricevuta delle quattro ore trascorse). Vorrebbe dire che Giuseppe D'Avanzo ha un futuro come consulente alla sceneggiatura. La scena che tra tutte abbiamo preferito vede Eugenio Scalfari di fronte a Giulio Andreotti, mentre da integerrimo giornalista gli elenca tutti i "si dice", chiedendogli ogni volta "è un caso?".
E via con Calvi, Sindona, Picciotta, Pecorelli, Dalla Chiesa, Ambrosoli, Falcone, Moro. Ribatte il divo Giulio: "E' un caso che io abbia contribuito a tenere in vita il suo giornale, con l'aiuto di Ciarrapico, cosa che consente a lei di venire qui per rivolgermi queste domande?". Più tardi, all'epoca del processo per mafia, Scalfari impettito nella cabina telefonica detta il pezzo con i punti, le virgole, le aperte virgolette, le chiuse virgolette e lo spelling del nome proprio Talleyrand.
Un attimo prima, il procuratore Caselli si è spruzzato tanta lacca sui capelli bianchi da aprire un altro buco nell'ozono. La tesi di Sorrentino - appena dissimulata dietro il registro grottesco, scandito dalle migliori battute andreottiane (lui sì che dovrebbe essere pagato, e bene, per la collaborazione alla sceneggiatura) - si può riassumere così: il senatore era a capo di una banda criminale responsabile di parecchi cadaveri. Delitti atroci e ben congegnati: prova ne sia che la magistratura nulla ha potuto, e nulla potrà fare, per incastrarlo.
Vediamo l'insediamento del settimo governo Andreotti, e poco dopo, dagli stessi corridoi lustri dove Cirino Pomicino si fa una pattinata, parte uno skateboard che finisce direttamente sul cratere dove morì Giovanni Falcone. Vediamo Andreotti alle corse dei cavalli - per crearsi un alibi? - e in montaggio parallelo l'uccisione di Salvo Lima, in puro stile Soprano o Padrino, scegliete voi. Vediamo Aldo Moro prigioniero, che compare nello specchio del bagno mentre Andreotti si lava le mani, neanche fossimo in un film dell'orrore (o in un film di Garrell, con la fidanzata morta che leva la pace al vivo).
Recitato con gigioneria da Toni Servillo, il divo somiglia al critico gastronomico di "Ratatouille", un tipaccio malmostoso che vive in una casa a forma di bara: trucco e orecchie esagerati, andatura da marionetta, bacio con Totò Riina al rallentatore. In casa Andreotti si prepara la minerale con le bustine di Idrolitina. Gli elettori vengono compensati con pacchi di spaghetti, caffé, anche soldi contanti messi in mano - orrore - a una signora.
3 - MISTERO ITALIANO: È IL PIÙ SCALTRO CRIMINALE O IL PIÙ GRANDE PERSEGUITATO DELLA STORIA D'ITALIA?
Fabio Ferzetti per Il Messaggero
Grandi risate all'inizio, attenzione concentrata, intenso applauso finale. Il divo di Paolo Sorrentino passa l'esame della stampa internazionale. Non era facile, per ciò che racconta e per le immagini che usa, forti e talvolta grottesche. Andreotti con la faccia irta di aghi contro l'emicrania che sembra uscito dal film dell'orrore Hellraiser. Cirino Pomicino neoministro che prende la rincorsa e si concede una lunga, bambinesca scivolata nel Transatlantico di Montecitorio. Il cadavere di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano ritrovato impiccato nel 1982 a Londra, che sembra stare in piedi e fissarci. L'automobile di Falcone proiettata in alto dalla bomba che cade, cade, cade, come un meteorite, poi esplode.
E ancora: Andreotti e signora impettiti sul divano mentre intorno a loro l'ala gaudente della Roma di governo si sfrena ballando ritmi africani con ragazze poco vestite. Andreotti che legge un giallo a letto sotto un gran ritratto di Marx. Andreotti che riceve i membri della sua corrente mentre si fa radere, in stile Padrino. Andreotti che gira per casa di notte come Nosferatu. O come l'usuraio dell'Amico di famiglia, il film precedente di Paolo Sorrentino, che dopo aver raccontato mestatori in ombra o senza volto, sceglie il simbolo stesso del Potere per cercare di sciogliere questo enigma così domestico e indecifrabile insieme.
Il "divo Giulio" come icona dell'italianità, dunque. Un Borgia dei nostri giorni, maschera tragica e centro intoccabile di tutti i misteri (Montanelli: Andreotti è il più scaltro criminale o il più grande perseguitato della storia d'Italia). Ma anche dispensatore di battute leggendarie come la sua insonnia, che nella scena più bella (e più inventata) del Divo pronuncia invece una appassionata dichiarazione d'amore alla moglie culminante in una disperata ammissione di colpa per tutto «il male perpetrato per garantire il bene» negli anni terribili delle stragi, 1969-1976, con i loro 236 morti e 817 feriti.
Con Il divo Sorrentino non solo sferra la più violenta accusa alla classe politica italiana vista dai tempi di Todo Modo, ma cambia le regole della rappresentazione di quella stessa classe. Siamo in una specie di "quarta dimensione" dove la citazione di nomi, cognomi e soprannomi (lo Squalo, il Ciarra, il Limone, sua Sanità...) si mescola con effetto "pulp" alla deformazione grottesca dei volti (lo stile del trucco sfiora Dick Tracy), alle immagini d'archivio (Rosaria Schifani, vedova di un agente ucciso, che perdona in lacrime gli assassini di suo marito). E alle sferzanti lettere dalla prigionia di Aldo Moro.
L'effetto è potente, a tratti sconcertante. Scrive Moro: «Andreotti è rimasto indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo disegno di gloria... Cosa significava davanti a tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, che significava tutto questo per Andreotti una volta conquistato il Potere per fare il Male, come sempre ha fatto il Male nella sua vita? Tutto questo non significava niente».
Intanto la colonna sonora alterna l'elettronica a Vivaldi, i Ricchi e Poveri a Sibelius, ed è questo caos di forme e di registri che ci resta addosso. Che cosa abbiamo visto, una farsa, una tragedia, un film dell'orrore? Chissà, forse non c'era proprio niente da vedere. O magari è il nulla del potere, quello di cui parla Moro nel finale, che Sorrentino e il suo grande cast Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso ci hanno chiamati a contemplare.
4 - LE BATTUTE MIGLIORI DEL FILM BY GIULIO
Dal Messaggero - «Lei ha 6 mesi di vita, mi disse il medico di leva. Anni dopo lo cercai per dirgli che ero sopravvissuto. Ma era morto lui. È andata sempre così».
- «Mi hanno chiamato il divo Giulio, la prima lettera del'alfabeto, il gobbo, la volpe, l'eternità, Belzebù. Non ho mai sporto querela visto che possiedo il senso dell'umorismo. Possiedo anche un grande archivio e ogni volta che ne parlo, come d'incanto, chi deve tacere tace».
- «Non dico mai bugie, non ne sono capace. Chi non vuol far sapere una cosa non deve confidarla nemmeno a se stesso, perché non bisogna lasciare tracce».
- «Soffro per Moro, non riesco a togliermelo dalla testa. Perché non hanno preso me? Moro era un uomo debole, io sono forte. Volevano i segreti, ma certe cose Moro non sapeva nemmeno che esistessero. Con me parlavano un anno...».
- «A tutti i familiari delle vittime dico: sì, confesso, è stata anche colpa mia, la destabilizzazione del paese, il terrore, lo stragismo per isolare gli estremi e rinforzare il centro, cioè la Dc... L'hanno chiamata strategia della tensione ma era una strategia della sopravvivenza... Bisogna amare molto Dio per capire questa mostruosa, inconfessabile contraddizione, che bisogna perpetrare il male per garantire il bene, questo Dio lo sa e lo so anch'io».
Dagospia 25 Maggio 2008