BENVENUTI ALLA ‘GUERRA DEMOCRATICA’ - FINI AL MASSIMO: “OGGI LE GUERRE SI FANNO, MA NON SI DICHIARANO” - “GLI ITALIANI HANNO LA CURIOSA PRETESA DI AVERE LICENZA DI UCCIDERE SENZA PERÒ RITENERE LEGITTIMO CHE GLI SIA RESA LA PARIGLIA” - CONTRO ISRAELE: “SE SI ATTACCHERÀ L’IRAN CI SARÀ LA TERZA GUERRA MONDIALE… E’ ABBASTANZA GROTTESCO OSSERVARE DA FUORI PAESI SEDUTI SU ARSENALI ATOMICI INCREDIBILI CHE FANNO LA VOCE GROSSA CON L’IRAN PERCHÉ IPOTETICAMENTE PUÒ FARE L’ATOMICA”…

Dal libro "La guerra democratica" di Massimo Fini - da "Libero"

Tratto da beppegrillo.it
"Se si attaccherà l'Iran ci sarà la Terza guerra mondiale, salteranno tutte le alleanze delle democrazie, più o meno forzate, con i Paesi cosiddetti moderati, che poi moderati spesso non sono. Salterebbe l'alleanza con la Giordania, l'Arabia Saudita, l'Egitto. La Terza guerra mondiale sarà una guerra particolare, sperequata, perché dalla parte dell'Occidente c'è un armamento straordinario e dall'altra ci sono popolazioni molto più deboli, ma anche molto più numerose. E' abbastanza grottesco osservare da fuori Paesi seduti su arsenali atomici incredibili che fanno la voce grossa con l'Iran perché ipoteticamente può fare l'atomica."
......

Tratto da "Libero"

Da quando è collassato il contraltare sovietico le Democrazie occidentali, guidate dagli Stati Uniti, avendo le mani ormai libere, hanno inanellato, in vent'anni, otto guerre: conflitto del Golfo (1991), Somalia (1992), Bosnia (1995), Serbia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), ancora Somalia, per interposta Etiopia (2006), e infine Libia (2011). E altre ne minacciano: alla Siria e soprattutto all'Iran.

Solo il primo conflitto del Golfo, avallato dall'Onu, aveva una legittimazione secondo il diritto internazionale allora vigente, perché Saddam Hussein aveva invaso uno Stato sovrano, il Kuwait, peraltro una creazione degli Stati Uniti, del 1960, ad uso dei loro interessi petroliferi (del resto anche l'Iraq è un'invenzione cervellotica degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre comunità, curdi, sunniti e sciiti, che nulla avevano a che vedere fra di loro, cosa che avrebbe avuto una serie di gravi conseguenze). Tutte le altre sono state guerre di aggressione, variamente motivate.

La «guerra democratica» si fa, ma non si dichiara. La si fa, con cattiva coscienza, chiamandola con altri nomi: «operazione di polizia internazionale» o di «peacekeeping» o, preferibilmente, «missione umanitaria». Questo equivoco, o piuttosto questa ipocrisia, ha scardinato il diritto internazionale vigente fino all'altro ieri e abbattuto, in particolare, il principio, prima mai messo in discussione da nessuno, della «non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano». Il grimaldello sono stati i «diritti umani».

Secondo le Democrazie esisterebbero dei valori universali, assoluti, i loro, che superano le sovranità nazionali e a cui tutti gli altri Stati devono adeguarsi. Si è cominciato con la Serbia, si è proseguito con l'Afghanistan talebano, con l'Iraq (dove, venuta meno ogni altra giustificazione, si è voluto portarvi a forza la democrazia) e si è finito, per ora, con la Libia.
Un altro corollario dei «diritti umani» è che è lecito alle Democrazie intervenire nelle guerre altrui cambiando il verdetto del campo di battaglia.

Lo si è fatto in Bosnia trasformando i vincitori serbi in vinti. Ma andare a mettere il dito nell'ecologia della guerra, anche qualora lo si faccia con le migliori intenzioni, si traduce quasi sempre in un boomerang. L'esempio classico è quello della guerra Iraq-Iran, anche se risale a un periodo precedente alla teorizzazione dei «diritti umani».

Quando nel 1985 l'esercito di Khomeini stava per prendere Bassora, la seconda città irachena, concludendo così la guerra, gli americani e i francesi intervennero in appoggio a Saddam Hussein, per motivi «umanitari» (non si poteva permettere alle «orde iraniane» di entrare a Bassora, sarebbe stata una carneficina), fornendogli ogni genere di armi, comprese quelle di «distruzione di massa», col risultato di prolungare la guerra di altri tre anni e di portare il bilancio dei morti da mezzo milione a un milione e mezzo, mentre il rais di Baghdad, ringalluzzito, con un arsenale nuovo di zecca, lo rovesciò sul Kuwait...

UN TRISTE ANTIPASTO
Era un antipasto, sia pur ancor spurio, della «guerra democratica». Poiché questa guerra non si presenta come tale, ma sotto le vesti di «missione umanitaria», il nemico, si tratti di Slobodan Milosevic o di Saddam Hussein o di Gheddafi o del Mullah Omar, non è mai, schmittianamente, uno justus hostis ma un criminale o un terrorista. Ai soldati del nemico non si applicano le regole dello ius belli.

Se catturati, non sono trattati come prigionieri di guerra e nemmeno da detenuti comuni, ma sono soggetti senza diritti sui quali si può fare quel che si vuole, come si è visto a Guantánamo, ad Abu Ghraib e come avviene ogni giorno nelle prigioni dell'Afghanistan
«liberato».

Ogni guerrigliero che si batta contro un'occupazione «democratica» è un criminale e si intentano grotteschi processi a combattenti che, in un'azione di guerra, si siano permessi di uccidere soldati delle Democrazie. I loro capi, politici e militari, vengono trascinati davanti al Tribunale internazionale dell'Aja per i «crimini di guerra», che è un'emanazione
dell'Onu ma ha questa curiosa particolarità: per quante nefandezze possano aver compiuto i soldati delle Democrazie (e i loro comandanti) non vi vengono giudicati.

Questo avviene di fatto, ma gli Stati Uniti, pur mandandovi a processo gli altri, lo affermano di diritto negando qualsiasi autorità di questo Tribunale sulle loro truppe. La «guerra democratica» utilizza quasi esclusivamente l'aviazione, bombardieri e caccia, e sempre più spesso, soprattutto in Afghanistan dove non riesce a piegare gli insorti, droni, aerei senza equipaggio, ma armati di missili, teleguidati da 10.000 chilometri di distanza. Nella «guerra democratica», in buona misura materialmente ma anche concettualmente e giuridicamente, uno solo può colpire, l'altro solo subire.

Tanto che si può dubitare che si tratti di una guerra in senso proprio, perché ne manca l'essenza: il combattimento. Uno dei comandanti in capo della missione Nato in Afghanistan, Tommy Frank, guidava le operazioni da Tampa, in Florida, fra un whisky e l'altro. Essenzialmente tecnologica, fatta con macchine, con sistemi digitalizzati, con robot, la «guerra democratica» perde ogni epica, ogni etica e persino ogni estetica.

L'Occidente democratico si arroga il diritto di dividere il mondo in «buoni» e «cattivi», di intervenire, come «giustiziere della notte», nelle guerre altrui, di imporre, con la forza, con la violenza, con le bombe, i propri valori perché si considera una «cultura superiore» (moderna declinazione del razzismo, poiché quello classico, dopo Hitler, è diventato impresentabile) e quindi con l'obbligo morale di portare «le buone maniere» ovunque, in un tentativo di omologazione a sé dell'intero esistente.

L'ITALIA CHE COMBATTE
È quello che in un altro libro ho chiamato Il vizio oscuro dell'Occidente, un totalitarismo, tanto più pericoloso perché, spesso, inconscio, che non riesce a riconoscere e nemmeno più a concepire la dignità e il diritto di esistenza dell'«altro da sé». Bisogna ammettere, con una certa amarezza che, sconfitti i totalitarismi nazifascista e comunista, quello democratico non si è rivelato migliore. Anzi, forse, un tantino peggiore. Perché bombarda, invade, occupa, uccide con la pretesa di farlo per il superiore Bene delle sue vittime. Una sorta di Santa Inquisizione planetaria. Ed è questo l'Intollerabile.

(...) Quando il 16 settembre 2009 sei soldati italiani caddero in un'imboscata talebana a Kabul - la più grave perdita, finora, del nostro contingente dal giorno in cui ha messo piede in Afghanistan - il governo, le forze politiche, i commentatori, l'opinione pubblica espressero unanime «sgomento e sdegno per il vile attentato». È comprensibile lo sgomento, non lo sdegno. L'obiettivo era militare e quindi perfettamente legittimo.

Gli italiani hanno la curiosa pretesa di fare la guerra, di avere licenza di uccidere senza però ritenere legittimo che gli sia resa la pariglia. E invece in guerra la speciale legittimità di uccidere, che non esiste in tempo di pace, deriva proprio dal fatto che si può essere altrettanto legittimamente uccisi.

Se solo uno può colpire e l'altro solo subire si esce dal campo della guerra e del combattimento. Questo atteggiamento psicologico, il rifiuto di considerare legittime, e direi ovvie e naturali, le proprie perdite, non è solo italiano, appartiene, sia pur con gradazioni diverse, a tutte le opinioni pubbliche occidentali, compresi i soldati. Ed è una conseguenza di quella che Edward Luttwack ha chiamato la guerra «post eroica» in cui l'enorme superiorità tecnologica e militare dell'Occidente ha fatto sì che all'uomo si sia sostituita la macchina.

EVITARE LO SCONTRO
Gli occidentali non sono più abituati al combattimento in senso proprio. Lo scontro ravvicinato, il corpo a corpo, la vista del sangue gli fa orrore.
Se appena possono lo evitano usando quasi esclusivamente i caccia e i bombardieri contro avversari che non hanno aerei né contraerea e sono perciò inermi.

Se in qualche caso rimangono coinvolti in uno scontro «vis a vis» e, per una volta, accusano perdite pesanti, quelle che quotidianamente infliggono al nemico, lo sentono come un affronto, una slealtà, una «vigliaccata», un'ingiustizia, un fatto di cui sdegnarsi, illegittimo e immorale.

Morale è invece colpire e uccidere con aerei-robot teleguidati a 10.000 chilometri di distanza da piloti che non corrono alcun rischio. Dall'altra parte ci sono uomini armati quasi solo dei loro corpi, del proprio coraggio, della feroce determinazione a difendere i propri valori, giusti o sbagliati che siano, e che si implicano totalmente.

Questa è stata, ed è, la guerra afghana. Ha detto Barack Obama: «Se potessi farei combattere solo i robot per risparmiare le vite dei nostri soldati». Ma è il combattente che non combatte a perdere ogni legittimità, ogni dignità e onore.

 

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